Sicurezza del dolutegravir in gravidanza, rischio inferiore a quanto stimato
La dott.ssa Rebecca Zash presenta i risultati dello studio Tsepamo a IAS 2019. Foto di Roger Pebody.
L’esposizione al dolutegravir al momento del concepimento o durante il primo trimestre di gravidanza è associata a un lieve aumento del rischio di difetti del tubo neurale: è quanto emerge dal follow-up a più lungo termine di una coorte nazionale di nuovi nati in Botswana, i cui risultati sono stati presentati alla 10° Conferenza sull’HIV dell’International AIDS Society (IAS 2019) che si sta tenendo questa settimana a Città del Messico.
Il rischio è però inferiore rispetto a quello suggerito dai risultati preliminari, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dunque emanato nuove raccomandazioni affinché il dolutegravir sia reso disponibile a tutte le donne (v. contributo seguente).
Quando si verifica un difetto del tubo neurale, la colonna vertebrale, il cervello e/o i relativi organi del feto non si formano nel modo corretto. La causa più frequente è una carenza di acido folico durante la gravidanza, ma possono essere implicati anche alcuni farmaci. Il rischio che si sviluppi un difetto del tubo neurale è massimo al momento del concepimento e nel primo trimestre di gravidanza. Il più diffuso dei difetti del tubo neurale è la spina bifida, una malformazione a carico della colonna vertebrale.
Nel 2018, ha destato preoccupazioni il tasso più elevato di difetti del tubo neurale in bambini esposti a dolutegravir intorno al momento del concepimento e nelle prime fasi di gravidanza che è stato osservato nell’ambito dello studio Tsepamo, in Botswana. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha risposto emanando delle indicazioni con cui si raccomandava una contraccezione efficace alle donne che potevano rimanere incinte qualora decidessero di assumere dolutegravir.
Lo studio Tsepamo è uno studio di sorveglianza sugli esiti alla nascita iniziato in Botswana nel 2014. Il programma nel 2018 è stato ampliato da 8 a 18 ospedali e ad oggi comprende dati sugli esiti di 119.477 parti, fino a marzo 2019.
I risultati presentati a IAS 2019 mostrano che, in termini di rischio, la differenza tra il dolutegravir e altri antiretrovirali si traduce in due casi in più di difetti del tubo neurale per ogni 1000 donne esposte ai farmaci.
È stato inoltre condotto in Brasile uno studio più piccolo su 1468 donne che avevano assunto dolutegravir, raltegravir o efavirenz durante la gravidanza, e non si sono registrati casi di difetti del tubo neurale.
Dato che la carenza di acido folico è tra le maggiori cause di difetti del tubo neurale, diversi studiosi alla conferenza hanno attirato l’attenzione sul problema della carenza delle supplementazioni di folati per le donne in gravidanza in Botswana e altri paesi.
Meg Doherty, coordinatrice di HIV Treatment and Care presso l’OMS, si è così espressa alla Conferenza: “Un rischio c’è, ed è compito nostro e dei singoli paesi tenerlo sotto stretta osservazione, ma a questo punto è bene che il dolutegravir sia reso disponibile alle donne in età fertile per gli immensi benefici che offre… Quali opzioni terapeutiche convenga perseguire è una decisione che una donna deve prendere in accordo con il proprio medico.”
Dolutegravir raccomandato a tutti nelle nuove linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
Un annuncio mirato a dissipare ogni dubbio in merito all’opportunità di far assumere il dolutegravir alle donne in età fertile (v. contributo precedente): le nuove raccomandazioni dell’OMS sono inequivocabili e raccomandano un regime a base di dolutegravir come trattamento elettivo di prima linea per tutti gli adulti e tutti gli adolescenti.
Nelle linee guida aggiornate al 2019, l’OMS raccomanda:
- dolutegravir in combinazione con due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTIs) per il trattamento di prima linea di tutti gli adulti e tutti gli adolescenti;
- 400mg di efavirenz in combinazione con due NRTIs come regime di prima linea alternativo, sia per adulti che per adolescenti.
Le linee guida contengono anche due raccomandazioni ‘condizionali’ – il che significa che le evidenze non sono ancora sufficienti – per il trattamento di bambini e neonati:
- dolutegravir con dosaggio da determinarsi in base al peso per bambini e neonati in fasce d’età per le quali il farmaco è approvato;
- in alternativa, terapia a base di raltegravir in caso di non disponibilità del dolutegravir.
Nelle linee guida si raccomanda anche che chiunque sia incorso in un fallimento terapeutico con un regime di prima linea che non conteneva dolutegravir passi a un regime di seconda linea con dolutegravir più un nuovo backbone NRTI.
Le nuove raccomandazioni evidenziano l’importanza di passare a un regime con dolutegravir nei contesti dove è in aumento la resistenza agli inibitori non-nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTIs). L’uso di efavirenz, in questi contesti, rischia infatti di causare un fallimento terapeutico e l’ulteriore trasmissione del ceppo virale farmacoresistente.
Attuare queste raccomandazioni è un imperativo urgente per il raggiungimento degli obiettivi internazionali noti come 90-90-90. Il trattamento a base di dolutegravir è conveniente sul piano dei costi, meglio tollerato (e dunque agevola la ritenzione in cura dei pazienti) e più potente, il che significa meno casi in cui si rende necessario passare ai più costosi regimi di seconda linea.
Pazienti HIV “molto soddisfatti” del regime a iniezione mensile
Miranda Murray di ViiV Healthcare presenta lo studio ATLAS a IAS 2019. Foto di Liz Highleyman.
Lo studio ATLAS (Antiretroviral Therapy as Long-Acting Suppression) ha testato un regime iniettabile composto da cabotegravir più rilpivirina (in commercio sotto forma di compressa con il nome di Edurant) in pazienti con piena soppressione virologica fino a quel momento trattati con il regime standard a somministrazione orale. Lo studio FLAIR (First Long-Acting Injectable Regimen) ha invece testato lo stesso regime in pazienti mai trattati prima. L’efficacia del regime iniettabile in termini di soppressione virologica era già stata attestata da risultati presentati in precedenza.
Per ATLAS sono stati reclutati 616 pazienti già in trattamento per l’HIV. Parte dei partecipanti ha continuato ad assumere la terapia orale e parte è invece passata al regime iniettabile con cabotegravir e rilpivirina. In termini di salute fisica e mentale, tra i due gruppi non si sono registrate differenze rilevanti, ma i pazienti del braccio con il regime iniettabile hanno espresso maggiore soddisfazione riguardo al nuovo trattamento. Dopo 44 settimane, il 97% di loro ha dichiarato di preferire il regime iniettabile a lunga durata d’azione a quello che assumevano in precedenza.
Per FLAIR sono invece stati reclutati 556 partecipanti che iniziavano il trattamento antiretrovirale per la prima volta. Inizialmente sono stati trattati con un regime orale a base di dolutegravir/abacavir/lamivudina (Triumeq) e poi parte di loro è stata fatta passare al regime iniettabile con cabotegravir e rilpivirina. Anche in questo caso, gli appartenenti al gruppo che ha effettuato lo switch terapeutico si sono detti maggiormente soddisfatti del proprio regime, e il 99% di loro ha dichiarato di preferirlo alla terapia orale.
Va però considerato che si tratta di partecipanti che si sono offerti volontari per questi studi sul nuovo regime iniettabile, quindi è possibile che siano già in partenza più motivati ed entusiasti di questo tipo di terapia rispetto ad altre persone che necessitano del trattamento HIV.
Le statine non rallentano la progressione dell’aterosclerosi nei pazienti HIV+
Janine Trevyllian a IAS 2019. Foto di Liz Highleyman.
Livelli elevati di colesterolo e trigliceridi, un potenziale effetto collaterale di alcuni farmaci antiretrovirali, sono associati a un aumentato rischio di malattie coronariche, infarti e ictus. Le linee guida raccomandano che tutti coloro che superano una certa soglia di rischio assumano statine o altri farmaci in grado di abbassare i livelli lipidici; solo che uno dei sistemi più diffusi di valutazione del rischio, il Framingham Risk Score, non è molto accurato nel predire il rischio nelle persone con HIV.
Lo studio ha considerato 84 persone con HIV provenienti da Australia e Svizzera, quasi tutti uomini, la maggior parte bianchi, con età mediana di 54 anni. Erano tutti partecipanti considerati a moderato rischio cardiovascolare. Come marker surrogato di aterosclerosi, i ricercatori hanno misurato lo spessore medio-intimale ( lo spessore dei vari strati che compongono la parete arteriosa) della carotide, l’arteria che irrora il cervello.
I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una dose quotidiana di rosuvastatina oppure un placebo. Come atteso, i livelli di colesterolo totale e di colesterolo LDL sono diminuiti nel braccio della rosuvastatina mentre sono rimasti sostanzialmente invariati nel braccio del placebo. Tuttavia non si sono rilevate differenze significative tra i due gruppi in termini di progressione dell’ispessimento medio-intimale dal baseline alla 96° settimana dello studio.
I partecipanti che hanno assunto la rosuvastatina hanno tuttavia lamentato più effetti collaterali. In questo braccio si sono inoltre verificati due decessi e quattro casi di eventi avversi gravi, mentre nel braccio del placebo né l’uno né l’altro.
Questi risultati, relativi a un gruppo di pazienti a modesto rischio di malattie cardiovascolari, contraddicono quelli di uno studio precedente che mostrava l’efficacia delle statine nel rallentare la progressione dell’aterosclerosi nelle persone con HIV.
È tuttavia in corso un ampio studio randomizzato denominato REPRIEVE, che si prevede possa fare chiarezza sull’effettiva efficacia delle statine una volta che ne saranno pubblicati i risultati.
Africa sub-sahariana, esiti sanitari HIV più sfavorevoli per chi consuma alcol e stupefacenti
Secondo due studi presentati a IAS 2019, chi fa uso di alcol e sostanze stupefacenti mostra minor adesione al percorso di cura per l’HIV. Mentre è acclarato che il consumo di alcol e droghe incide negativamente sugli esiti sanitari delle persone HIV+ in contesti come quello europeo e nordamericano, i dati riguardanti l’Africa sub-sahariana sono ancora scarsi.
Un gruppo di ricercatori dell’Università della California - San Francisco hanno dunque cercato di stabilire l’impatto del consumo di alcol nel continuum di cure dalla diagnosi di HIV al trattamento all’abbattimento della carica virale, utilizzando i dati al baseline di SEARCH, un trial con randomizzazione cluster di tipo ‘test-and-treat’ condotto in 32 comunità rurali di Kenya e Uganda.
Delle 10.067 persone con HIV che hanno preso parte a uno screening per il consumo di alcol in un’indagine porta-a-porta condotta per SEARCH, il 16% erano bevitori. Al baseline, bevitori e non-bevitori mostravano caratteristiche simili, con un’unica differenza: il 71% dei bevitori erano maschi, mentre solo il 29% dei non bevitori lo erano. Chi consumava alcol aveva il 12% di probabilità in meno di essere consapevole del proprio stato HIV+, una tendenza che si faceva via via più pronunciata nei forti bevitori.
Tra chi invece aveva l’infezione già diagnosticata, i bevitori avevano il 7% di probabilità in meno di essere in terapia antiretrovirale (ART), e tra quelli in ART un consumo elevato e molto elevato di alcol risultava associato rispettivamente con il 12% e il 13% di probabilità in meno di raggiungere la soppressione virologica. Paragonando tutti i partecipanti, bevitori e non, il consumo di alcol di qualsiasi entità risultava associato con il 20% di probabilità in meno di essere virologicamente soppressi.
Un secondo studio, basato su dati provenienti da 2374 persone con HIV in carico presso una struttura medica in un sobborgo di Durban, in Sudafrica, ha ottenuto risultati simili.
Al baseline, il 50% degli uomini e il 21% delle donne avevano dichiarato di aver recentemente consumato alcol; l’11% degli uomini e l’1% delle donne avevano fumato marijuana; e il 2% degli uomini e l’1% delle donne riferiva di aver fatto uso di altri stupefacenti.
Chi faceva uso di alcol aveva una probabilità inferiore del 30% di essere ancora in cura a dodici mesi dal reclutamento. Chi faceva uso di stupefacenti diversi dalla marijuana aveva il 78% di probabilità in meno di raggiungere la soppressione virale. Il consumo di marijuana, invece, non è risultato associato a tassi inferiori di soppressione.
Gli autori di questi studi hanno rimarcato l’esigenza di elaborare interventi che tengano conto del consumo di alcol e stupefacenti per le persone con HIV nell’Africa subsahariana, se l’intento è quello di far raggiungere a questi paesi gli obiettivi 90-90-90 di UNAIDS.
Analisi scientifica a cura di Clinical Care Options
Clinical Care Options, partner ufficiale di IAS 2019 per l’analisi scientifica, offrirà sintesi degli studi presentati alla Conferenza, presentazioni PowerPoint scaricabili e approfondimenti nella sezione ClinicalThought.