L’abacavir provoca ancora gravi problemi cardiovascolari
Nonostante le linee guida contengano svariati richiami alla cautela nella prescrizione dell’antiretrovirale abacavir agli individui più esposti al rischio di malattie cardiovascolari, un ampio studio internazionale ha rilevato che ogni anno 1 persona su 200 che assume abacavir è colpita da infarto, ictus o altri gravi eventi cardiovascolari. I risultati di questo studio sono stati presentati ieri alla 18° Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2021).
Non sono emerse evidenze che nelle persone che assumevano abacavir il rischio di evento cardiovascolare fosse influenzato da fattori come il rischio cardiovascolare previsto a cinque anni oppure il rischio di malattia renale cronica: in altre parole, le persone con minor rischio di malattie cardiovascolari avevano le stesse probabilità di andare incontro a un evento cardiovascolare delle persone con rischio molto elevato.
Questi dati si riferiscono alla totalità dei partecipanti di RESPOND, uno studio collaborativo internazionale condotto su 17 coorti di persone con HIV in Europa e Australia: una popolazione di pazienti prevalentemente maschi e di mezza età, con diffusi fattori di rischio cardiovascolare.
Anche se i pazienti considerati più esposti al rischio di evento cardiovascolare avevano qualche probabilità in meno di essere trattati con l’abacavir, poco più di un terzo dei partecipanti allo studio lo aveva assunto in un qualche momento tra il 2012 e il 2017, di solito in combinazione con un inibitore della proteasi potenziato.
I ricercatori hanno calcolato il rischio di evento cardiovascolare nei partecipanti che avevano assunto l’abacavir negli ultimi sei mesi confrontandolo con quello delle persone mai esposte al farmaco. Durante il periodo di studio, sono stati registrati 748 eventi cardiovascolari (299 infarti, 228 ictus e 221 altri eventi che hanno richiesto cardiovascolari invasive) durante un follow-up mediano di 4,4 anni. Si tratta di un'incidenza bassa, ma non trascurabile, di quasi 5 casi per 1000 persone-anno di follow-up, o 1 caso su ogni 200 persone che assumono abacavir ogni anno.
Dopo l’aggiustamento per fattori di rischio demografici e cardiovascolari, negli individui recentemente esposti all’abacavir l’incidenza di questo tipo di eventi è risultata del 40% più elevata.
Primi risultati di efficacia dello studio inglese sulla PrEP IMPACT
Tra gli uomini omo- e bisessuali arruolati per IMPACT, uno studio di implementazione della PrEP condotto in Inghilterra, si è verificato l’87% di infezioni da HIV in meno rispetto a un gruppo comparabile di uomini in carico presso un centro per la salute sessuale che non assumevano la PrEP.
IMPACT è forse il più ampio studio dimostrativo sulla PrEP mai condotto, con ben 24.255 partecipanti – quasi il 96% di sesso maschile, cisgender e omo- e bisessuali, ed è su questo gruppo che si è concentrata l’analisi.
Questi partecipanti sono stati messi a confronto con un gruppo di controllo composto sempre da maschi cisgender omo-e bisessuali che, per comportamenti sessuali a rischio, sarebbero stati eleggibili per ricevere la PrEP.
Nell’arco di tempo preso in considerazione dallo studio, è stata diagnosticata un’infezione da HIV a 24 dei partecipanti del gruppo di intervento – in tutti i casi, con una sola eccezione, probabilmente perché non assumevano correttamente o avevano smesso di assumere i farmaci per la PrEP. Il tasso di incidenza annuo per questo gruppo è stato dello 0,13%, mentre nel gruppo di controllo dei partecipanti che non assumevano al PrEP è arrivato all’1,01%.
I ricercatori hanno tentato di servirsi dei dati raccolti di routine (su infezioni a trasmissione sessuale (IST), profilassi post-esposizione, test HIV, prestazioni sessuali a pagamento, partner HIV-positivi noti) per predire il rischio di contrarre l’HIV, ma si è scoperto che tra gli uomini che non presentavano questi fattori di rischio l’incidenza era maggiore rispetto a quelli con marcatori di rischio più elevato, che assumessero la PrEP o meno. Il che fa pensare che questi marcatori non possano al momento essere utilizzati per identificare gli utenti dei centri per la salute sessuale che maggiormente potrebbero trarre beneficio dalla PrEP.
I tassi di IST sono risultati elevati, e hanno per lo più interessato una minoranza degli uomini che hanno preso parte allo studio: se dunque metà di loro non ha contratto alcuna infezione a trasmissione sessuale, l’80% delle IST diagnosticate nel corso dello studio sono risultate concentrate nel 26% dei partecipanti.
C’è bisogno di un più incisivo monitoraggio contro gli abusi domestici
In un grande centro specializzato nell’assistenza a persone HIV-positive di Londra è triplicato il numero di denunce di abusi sessuali dopo che è stato attivato un progetto per il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria in cui gli operatori venivano incoraggiati a chiedere regolarmente ai pazienti se ne fossero stati vittima. La maggioranza di queste denunce è arrivata da MSM (uomini che fanno sesso con altri uomini) di nazionalità britannica e non caucasici.
Il personale, dopo aver preso parte a una formazione specifica, ha ricevuto dei promemoria settimanali con relazioni sui dati di monitoraggio degli episodi di abuso e frequenti esortazioni a fare domande in merito a ogni visita. I pazienti che denunciavano abusi venivano inviati a dei consulenti sanitari.
Il progetto ha coinciso con i periodi di lockdown legati all’emergenza COVID-19, una situazione associata con un aumento degli episodi di abuso domestico.
L’anno prima che venisse avviato il progetto i medici facevano domande su eventuali abusi domestici ai pazienti solo nell’8% delle visite: tra marzo 2020 e marzo 2021, la percentuale è salita al 33%, e i pazienti che hanno denunciato sono passati da 11 a 36. Degno di nota è che nella maggior parte dei casi era necessario che l’operatore sanitario facesse domande in merito più e più volte prima che il paziente si sentisse di denunciare.
I due terzi dei pazienti che hanno denunciato episodi di abuso erano di sesso maschile, e la maggioranza – sia degli uomini che delle donne – non erano caucasici.
Il personale ha riferito di sentirsi gradualmente sempre più a proprio agio nel gestire la questione, e anche il feedback da parte dei pazienti è stato positivo.
Calano i tassi di HIV multifarmacoresistente
È sempre più raro che insorgano resistenze a tutte e quattro le principali classi di antiretrovirali tra le persone con HIV: è quanto emerge da dati provenienti da Belgio, Germania, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna e Svezia.
Merita sottolineare che l’analisi presentata alla conferenza comprende dati riguardanti un’ampia coorte di pazienti trattati con una terapia antiretrovirale, anziché individui che hanno fatto specifica richiesta di un test di resistenza. L’analisi ha riguardato quasi 40.000 persone, in un arco di tempo compreso tra il 1996 e il 2019.
Durante il periodo considerato, il 6,9% dei pazienti in trattamento ha sviluppato una resistenza a tre classi di farmaci. La prevalenza di questo tipo di resistenza ha raggiunto il picco nel 2005, quando riguardava il 10% di tutte le persone che assumevano un trattamento antiretrovirale. L’incidenza (ossia il tasso di nuovi casi all’anno) della resistenza a tre classi di farmaci ha toccato il suo massimo sempre nel 2005, raggiungendo il 2,7%, per poi mantenersi stabilmente al di sotto dell’1% in tutti gli anni successivi al 2010.
La resistenza a quattro classi di farmaci è risultata rara, segno dell’alta barriera alla resistenza dimostrata dagli inibitori dell’integrasi, la nuova classe di farmaci introdotta nel 2008. In totale, solo l’1,8% dei pazienti in trattamento ha sviluppato una resistenza a quattro classi di farmaci. Prevalenza e incidenza sono rimaste inferiori all’1% per tutti gli anni.
Da questi risultati sembra di poter desumere che difficilmente lo sviluppo di nuovi antiretrovirali sarà giustificabile sulla base della necessità di farmaci per trattare l’HIV multifarmacoresistente.
Le linee guida specialistiche che non raccomandano il test per pazienti con malattie indicative di HIV
La diffusione del test per l’HIV in Europa è ostacolata dall’esistenza di linee guida di pratica clinica che non raccomandano di eseguirlo su pazienti con patologie AIDS-definenti o altre patologie suggestive di un’infezione da HIV, si è appreso alla Conferenza.
Sono le risultanze di uno studio i cui autori hanno esaminato 786 linee guida nazionali di 13 paesi europei, rivolte a medici specialisti nel trattamento di patologie che possono essere correlabili alla presenza di un’infezione da HIV.
Soltanto nel 65% delle linee guida esaminate si faceva menzione del test per HIV, e solo il 44% raccomandava effettivamente di farlo eseguire. Anche considerando solo le linee guida su patologie AIDS-definenti, non più del 50% raccomandavano il test. Per fare un esempio, la raccomandazione è stata individuata soltanto nel 15% delle linee guida sul carcinoma della cervice uterina (cancro del collo dell’utero) e nel 18% di quelle sulla polmonite recidivante.
Nelle linee guida dei paesi dell’Europa orientale è risultato più probabile che venisse fatta la raccomandazione di eseguire il test rispetto a quelle dei paesi dell’Europa occidentale, in larga parte per via di una più vasta copertura delle patologie AIDS-definenti.