Australia, incidenza HIV in forte calo per chi assume la PrEP con costanza
I risultati sono stati presentati dal dott. Nicholas Medland del Kirby Institute, Università del New South Wales, alla 31° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2024) tenutasi la scorsa settimana a Denver, Stati Uniti.
In Australia, la PrEP è sovvenzionata dal governo fin dal 2018 ed è disponibile attraverso il servizio sanitario nazionale: i farmaci sono dunque poco costosi e altamente accessibili.
Medland e colleghi hanno disegnato un'analisi basata su un confronto diretto tra due gruppi di persone eleggibili per la PrEP: uno che ha continuato ad assumere i farmaci nel tempo, e l'altro che non ha invece proseguito dopo la prima prescrizione. Raffrontando i dati relativi all'erogazione della PrEP e a quella delle terapie antiretrovirali (il ricorso alle quali è indicativo di una diagnosi di HIV), gli studiosi hanno stimato per ciascun gruppo il numero di persone che hanno acquisito l'HIV tra il 2018 e il 2023.
Durante il periodo di studio la PrEP è stata prescritta a 66.206 persone. Il 19% non ha più fatto richiesta dei farmaci dopo averli ricevuti una prima volta, ma il gruppo più numeroso (53%) li ha richiesti più volte; la percentuale di giorni totali coperti dalla PrEP per questo gruppo è però risultata inferiore al 60%, il che è indice di scarsa aderenza. In un terzo gruppo (28%) i partecipanti hanno invece mostrato un'aderenza maggiore: non solo non si sono limitati a una sola erogazione, ma la percentuale di giorni coperti dalla PrEP è stata superiore al 60%.
Le diagnosi di HIV sono state 207: il 55% si è avuto nel gruppo a bassa aderenza, il 30% nel gruppo che aveva ricevuto un'unica erogazione di farmaci e solo il 15% nel gruppo ad alta aderenza.
L'incidenza complessiva dell'HIV è stata bassa, pari a 1,07 per 1000 anni-persona. Tra coloro che ricevevano anche un trattamento per l'epatite C tornava però a essere elevata: 9,83 per 1000 anni-persona.
Rispetto al primo gruppo, che non era andato oltre la prima erogazione, l'incidenza dell'HIV calava del 62% nel gruppo che aveva ricevuto i farmaci più volte ma che non aderiva del tutto correttamente al trattamento, e di ben il 79% in quello con aderenza più elevata.
Il ricorso alla PrEP aumenta nettamente se i servizi offrono scelta, flessibilità e disponibilità di farmaci iniettabili
"Per aumentare la copertura della prevenzione biomedica servono interventi flessibili e individualizzati, ma serve anche il cabotegravir a lunga durata d'azione", ha detto a CROI 2024 il dott. Moses Kamya dell'Università di Makerere, in Uganda.
Alla Conferenza dello scorso anno, il team di ricerca aveva presentato i risultati ottenuti con un approccio che mette la persona al centro dell'intervento preventivo: con l'offerta standard, le persone che richiedevano PrEP o PEP (il trattamento d'emergenza che si assume per prevenire l'HIV dopo un sospetto contatto) restavano una minoranza; quando invece i servizi sono stati ottimizzati per offrire scelta e flessibilità, il ricorso è più che raddoppiato.
L'ultima fase dello studio ha coinvolto 984 persone considerate a rischio di acquisire l'infezione da HIV. I partecipanti sono stati randomizzati per metà nel braccio di intervento, e per l'altra metà nel braccio di controllo, che riceveva l'intervento standard. Insieme alla PrEP orale, alla PEP e ai preservativi è stata offerta l'opzione di ricevere la PrEP per via iniettiva (con cabotegravir).
Nel braccio di controllo, i partecipanti che facevano ricorso a una forma di prevenzione biomedica dell'HIV sono stati il 13%; nel braccio di intervento, si è arrivati al 70%.
Nel corso delle 48 settimane dello studio, oltre un quarto dei partecipanti del braccio di intervento ha usufruito di almeno due diverse opzioni di prevenzione. La PrEP orale è stata scelta dal 53% dei partecipanti, la PrEP iniettabile dal 56%; il ricorso alla PEP è stato invece solo occasionale (2%). Merita sottolineare che il 42% delle persone che sceglievano la PrEP iniettabile all'inizio dello studio non aveva fatto ricorso ad alcuna forma di prevenzione dell'HIV nel mese precedente.
Grazie a questo intervento non solo sono aumentati i livelli di copertura per quanto riguarda la prevenzione, ma l'incidenza dell'HIV è scesa a zero. Nel braccio di controllo, si sono infatti osservati nel corso dello studio sette eventi di sieroconversione (per un'incidenza dell'1,8% all'anno), mentre nel braccio di intervento neanche uno.
La prossima fase dello studio prevede l'offerta di un'ulteriore opzione, l'anello vaginale a rilascio di dapivirina.
La resistenza al dolutegravir diventerà un problema?
Svariati interventi di CROI 2024 hanno affrontato la questione del dolutegravir e delle resistenze che il virus dell'HIV starebbe iniziando a sviluppare contro questo inibitore dell'integrasi, che è uno degli antiretrovirali più utilizzati al mondo. Nelle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, il dolutegravir è considerato "pietra angolare" del trattamento dell'HIV sia di prima che di seconda linea.
L'insorgenza di una resistenza significativa al dolutegravir è un evento poco comune, ma si sta osservando sempre più frequentemente soprattutto in alcuni gruppi, tra cui i bambini.
Il dott. George Bello dell'International Training and Education Center for Health di Lilongwe, Malawi, ha presentato uno studio condotto su 302 bambini di età compresa tra i 2 e i 14 anni, in trattamento con dolutegravir da più di nove mesi e con carica virale superiore a 1000.
Dopo un intervento di counseling per l'aderenza, 169 bambini hanno raggiunto la soppressione virale. I restanti 133 sono stati sottoposti a test di resistenza ai farmaci, e in tre quarti di loro è stata riscontrata almeno una mutazione che induce farmacoresistenza: nel 65,5% dei casi, agli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI) e nel 42% agli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI). Solo il 16% dei giovanissimi partecipanti presentava significative mutazioni di resistenza agli inibitori dell'integrasi (INSTI). Più rare ancora sono risultate le mutazioni di resistenza agli inibitori della proteasi (PI), solo il 5%.
Alcuni pazienti che presentavano elevate cariche virali dopo essere passati da un regime a base di NNRTI alla combinazione di tenofovir, lamivudina e dolutegravir (TLD) erano eleggibili per il test di resistenza.
Su 15.299 persone che hanno effettuato lo switch terapeutico, erano eleggibili in 151, e 78 di loro si sono sottoposte al test. Di questi, solo otto (10%) mostravano una resistenza al dolutegravir, ma ben due erano bambini di nove e sette anni: vale a dire il 25% di tutti coloro che presentavano resistenza al dolutegravir in una coorte in cui i bambini erano meno del 3%.
Altri due studi hanno invece riguardato gli adulti. In Kenya, 55 persone in trattamento con TLD e con carica virale superiore a 200 sono state sottoposte al test di resistenza. In 44 dei campioni testati sono state evidenziate mutazioni, e in otto casi (il 14,5%) si trattava di mutazioni in grado di conferire resistenza al dolutegravir.
Di contro, uno studio condotto in Zambia e Malawi ha individuato solo due soggetti con resistenza significativa al dolutegravir su 2833 pazienti passati da TLD a un altro regime.
Se fallisce un trattamento di seconda linea con INSTI, quali opzioni terapeutiche restano a disposizione? Uno studio condotto in Sudafrica ha preso in considerazione un gruppo di pazienti che arrivavano da un fallimento terapeutico con un regime di seconda linea a base di PI. Su 355 partecipanti, 234 presentavano mutazioni di resistenza ai PI. Di questi, 133 sono passati a dolutegravir e 101 a darunavir potenziato, considerato un PI di terza linea.
Lo switch a darunavir potenziato si è mostrato non inferiore in termini di efficacia rispetto allo switch a dolutegravir. L'89% dei pazienti trattati con dolutegravir e il 92% di quelli trattati con darunavir erano riusciti a mantenere la soppressione virale a 12 mesi, nonostante presentassero mutazioni di resistenza ai PI. Il dato sembrerebbe confermare la validità del regime con darunavir potenziato come terapia di salvataggio per chi sperimenta un fallimento terapeutico con un regime di seconda linea a base di INSTI.
Il cabotegravir a lunghissima durata d'azione potrebbe permettere la somministrazione tre sole volte all'anno
Il dott. Kelong Han della casa farmaceutica GSK ha valutato insieme ai suoi colleghi la sicurezza e la farmacocinetica del cabotegravir in diverse formulazioni e con diversi metodi di somministrazione in uno studio di fase I condotto su 70 partecipanti.
In primo luogo i ricercatori hanno testato la versione approvata di 200 mg/ml di cabotegravir (CAB200) somministrata per iniezione sottocutanea nell'addome insieme alla ialuronidasi umana ricombinante PH20 (rHuPH20), che consente volumi di iniezione più elevati. Il farmaco non è stato però ben tollerato, e otto partecipanti hanno manifestato gravi reazioni al sito di iniezione. Si è dunque deciso di abbandonare questo dosaggio.
Nella successiva fase dello studio, i partecipanti hanno ricevuto una nuova formulazione a lunghissima durata d'azione (CAB-ULA) senza rHuPH20. CAB-ULA è stato somministrato in diversi dosaggi (800mg/2ml, 1200mg/3ml o 1600mg/3ml) mediante iniezione sottocutanea nell'addome o iniezione intramuscolare nei glutei, risultando meglio tollerato – soprattutto quando somministrato intramuscolo.
La concentrazione massima di CAB-ULA somministrato per iniezione sottocutanea era inferiore a quella somministrata per iniezione intramuscolare, ed entrambe erano inferiori alla concentrazione approvata di CAB200 a somministrazione intramuscolare. Secondo Han, i profili farmacocinetici erano "più piatti", il che indicherebbe un assorbimento più lento. L'emivita di CAB-ULA era più lunga con somministrazione sottocutanea che intramuscolare, e in ambo i casi era più lunga di quella di CAB200 intramuscolare.
I modelli farmacocinetici hanno predetto che con la somministrazione di CAB-ULA tramite iniezione intramuscolare a intervalli di almeno quattro mesi si otterrebbe un'esposizione al farmaco più elevata rispetto a CAB200 somministrato intramuscolo ogni due mesi.
HIV e steatosi epatica, buoni risultati con il semaglutide
La steatosi epatica associata a disfunzione metabolica – o MASLD, dall'inglese Metabolic Dysfunction Associated Steatotic Liver Disease – è una patologia responsabile di un numero sempre maggiore di epatopatie gravi in tutto il mondo. Comunemente nota anche come 'fegato grasso', questo tipo di steatosi è associato a obesità, diabete di tipo 2 e altre anomalie del metabolismo. Nel tempo, l'accumulo di grasso nel fegato può condurre a infiammazioni, fibrosi e cirrosi epatiche e cancro.
Il dott. Jordan Lake dell'Università del Texas, sede di Houston, ha presentato i risultati di SLIM LIVER, uno studio di fase IIb mirato a valutare gli effetti del semaglutide sul contenuto di grasso epatico in persone con infezione da HIV.
Per lo studio sono stati arruolati 51 adulti in terapia antiretrovirale soppressiva con un'ampia circonferenza vita, insulino-resistenza o pre-diabete e MASLD (definita come almeno il 5% di contenuto di grasso epatico rilevato mediante risonanza magnetica).
I partecipanti si sono autosomministrati iniezioni sottocutanee di semaglutide una volta alla settimana per 24 settimane, con dosaggio crescente nel tempo, fino a raggiungere 1 mg. A sei mesi si è osservata una riduzione del grasso epatico, in media, del 4,2% in termini assoluti e del 31,3% in termini relativi. In più di un quarto dei partecipanti si è osservata la completa risoluzione della MASLD.
La riduzione del grasso epatico è stata accompagnata da significative diminuzioni ponderali (con una perdita mediana di 7,8 kg), riduzioni della circonferenza vita e miglioramenti dei valori di glucosio e trigliceridi a digiuno.
Non ha invece risposto al semaglutide circa il 20% dei partecipanti, una percentuale simile a quella osservata nella popolazione generale.
Attualmente non esistono terapie mediche approvate per questa patologia, la cui gestione si basa quindi su interventi mirati a modificare lo stile di vita come la perdita di peso e l'esercizio fisico. Lake ha però segnalato che il semaglutide potrebbe non essere efficace contro la malattia avanzata. "È più che altro un modo per trattare o prevenire la malattia precoce, non per far regredire un'epatopatia già evoluta", ha spiegato lo studioso.
Stati Uniti, le diagnosi di HIV tra gli uomini neri diminuiscono – ma i progressi sono lenti
Negli Stati Uniti, per gli uomini omo- e bisessuali è generalmente diminuito il rischio di acquisire l'HIV nel corso della vita: da 1 su 2 nel periodo 2010-2014 si è scesi a 1 su 3 nel periodo 2017-2021, si apprende dai dati presentati dai ricercatori dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Tuttavia persistono le disparità tra uomini bianchi e neri e, secondo alcune stime, negli ultimi anni sarebbero perfino aumentate, nonostante la diminuzione della quantità di nuove diagnosi per entrambi i gruppi.
Statine e malattie cardiache, servono indicazioni mirate per le donne con HIV
Nelle attività di counseling sul rischio di malattie cardiache e l'assunzione di statine nelle donne con infezione da HIV, quando si illustrano i risultati dello studio REPRIEVE sull'efficacia delle terapie con statine occorre sottolineare che i livelli di rischio di malattia cardiovascolare per uomini e donne HIV-positivi sono simili, ha detto la scorsa settimana a CROI 2024 un'autrice dello studio. Occorre poi che le donne siano adeguatamente informate sui sintomi delle malattie cardiache e di come essi differiscono nell'uomo e nella donna.
Lo switch terapeutico a un inibitore dell'integrasi intorno alla menopausa causa maggior aumento di peso
Nelle donne con infezione da HIV in prossimità della menopausa, lo switch terapeutico a un inibitore dell'integrasi è associato a un aumento ponderale più rapido rispetto a quelle in pre-menopausa: è quanto si apprende da uno studio retrospettivo di coorte condotto negli Stati Uniti.
Il dolutegravir non risulta associato ad aumenti della pressione in gravidanza
In un ampio studio internazionale non è stata riscontrata alcuna associazione tra il dolutegravir e un aumento del rischio di ipertensione arteriosa durante la gravidanza, ha riferito la prof.ssa Risa Hoffman a nome del team di studiosi che ha condotto IMPAACT 2010.