Epatite C in calo tra le persone HIV+ grazie all’aumentato accesso alle terapie
La disponibilità di antivirali ad azione diretta ha consentito di dimezzare i nuovi casi di epatite C tra persone con infezione da HIV in alcuni contesti ad alto reddito, a quanto osservato da un nuovo studio i cui risultati sono stati presentati questa settimana alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2022).
Gli attuali obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’eliminazione dell’epatite C entro il 2030 incoraggiano a puntare a un numero di nuove infezioni inferiore a 5 su 100.000 persone, e inferiore a 2 su 100 per i consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva.
Per valutare i passi avanti compiuti verso l’obiettivo dell’eliminazione dell’epatite C nelle persone HIV-positive, e contemporaneamente per sondare l’impatto degli antivirali ad azione diretta sulla sua incidenza, l’International Collaboration on Hepatitis C Elimination in HIV Cohorts ha raccolto dati relativi a 105.402 pazienti appartenenti a dieci coorti in Francia, Spagna, Svizzera, Paesi Bassi e Australia.
Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2019, sui 45.943 individui idonei all’inclusione nell’analisi – che avevano cioè eseguito un test per l’epatite C al basale e un test di follow-up più avanti – 2051 hanno contratto l’infezione da epatite C durante il periodo di follow up. Il 72% degli appartenenti alla corte erano maschi omo- e bisessuali; i consumatori di stupefacenti per via iniettiva rappresentavano invece solo lo 0,4% del campione studiato.
L'incidenza è risultata relativamente stabile tra il 2010 e il 2015, ma tra il 2015 e il 2019 è crollata del 50%, da 0,91 casi su 100 persone-anno di follow up a 0,46 su 100-persone-anno: un calo notevole che ha coinciso con la messa a disposizione su larga scala degli antivirali ad azione diretta. Il declino è risultato più marcato in paesi dove era precedentemente stata registrata un’elevata incidenza di epatite C nella popolazione HIV-positiva.
Paziente trattato con terapia anticorpale in remissione HIV da quattro anni senza farmaci
Il paziente aveva preso parte a uno studio in cui veniva impiegato un anticorpo ampiamente neutralizzante (bNAb) denominato 3BNC117. Non era la prima volta in assoluto che questo anticorpo veniva sperimentato, ma potrebbe essere il primo studio i cui partecipanti sono stati arruolati molto a ridosso del momento in cui hanno contratto l’infezione, quando i loro reservoir di materiale virale latente erano forse di dimensioni ancora contenute.
I 59 partecipanti sono stati suddivisi in quattro gruppi: a 15 persone è stata somministrata soltanto la ART (il gruppo di controllo); altre 15 oltre alla ART hanno ricevuto due infusioni di bNAb rispettivamente 7 e 21 giorni dopo aver iniziato la terapia; 13 hanno ricevuto la ART più un agente di inversione della latenza somministrato 10, 17 e 24 giorni dopo l’inizio della terapia; e infine 16 hanno ricevuto la ART ed entrambi i farmaci sperimentali.
Uno dei problemi cruciali con questo tipo di terapia sono le mutazioni di resistenza che l’HIV tende naturalmente a produrre contro gli anticorpi impiegati. Si sono infatti osservate mutazioni di resistenza nel 47% dei partecipanti del gruppo che ha assunto il bNAb più la ART, e nel 37% di quello che ha assunto tutte e tre le terapie.
Se la terapia anticorpale riduceva direttamente il numero di linfociti CD4 in cui il virus era attivamente replicativo, in alcuni soggetti sensibili produceva anche una percentuale considerevolmente più alta di linfociti CD8 suscettibili all'HIV. Si tratta di cellule importanti per contrastare l’infezione, perché eliminano le cellule viralmente infettate e la loro memoria antivirale declina solo gradualmente.
La carica virale è diminuita più rapidamente nei partecipanti a cui è stata somministrata una o entrambe le terapie sperimentali rispetto alla sola ART. Dopo 400 giorni di ART, 20 partecipanti hanno accettato di interrompere l’assunzione di antiretrovirali a scopo di studio, sotto controllo medico, per riprenderla dopo 12 settimane o prima se la carica virale avesse superato le 5000 copie. Sette partecipanti su 20 sono riusciti a non superare questa soglia per tutte le 12 settimane senza farmaci.
Uno dei partecipanti ha invece deciso di portare avanti il periodo di sospensione della terapia e, quasi quattro anni dopo, non ha ancora ripreso ad assumere i farmaci. Per ora riesce a tenere spontaneamente la carica virale a 0,2 copie/ml, un livello bassissimo rilevabile soltanto con test molecolari altamente sensibili. Questo naturalmente impedisce di considerarlo ‘curato’ dall’infezione nel senso che il virus è ancora presente nel suo organismo: si potrebbe però descriverlo come un caso di remissione a lungo termine, o magari perfino di cura funzionale, se continuerà a mantenere la replicazione dell’HIV a livelli così bassi.
La terapia anticorpale come possibile alternativa alla ART nel trattamento dell’HIV pediatrico?
Per lo studio, condotto dal dott. Roger Shapiro della Harvard Medical School in collaborazione con alcuni istituti di ricerca di Stati Uniti e Botswana, sono stati arruolati 28 bambini nati con infezione da HIV in Botswana, di età compresa tra i 2 e i 6 anni al momento dello studio; tutti avevano ricevuto una terapia antiretrovirale (ART) entro sette giorni dalla nascita.
Ai piccoli partecipanti è stata somministrata una combinazione di due bNAb denominati VRC01LS e 10-1074 inizialmente insieme alla ART; se riuscivano a mantenere la carica virale a livelli non rilevabili, la somministrazione degli antiretrovirali veniva interrotta – a questo punto i bambini inclusi erano scesi a 25. Gli anticorpi sono stati loro somministrati per infusione endovenosa ogni quattro settimane.
Dieci bambini su 25 sono riusciti a mantenere la carica virale al di sotto di 40 copie per tutte le 24 settimane dello studio; un altro l’ha comunque mantenuta sotto le 400 copie.
Dei 14 bambini che invece non sono riusciti a mantenere la soppressione virale con i bNAb, in otto casi la carica virale è tornata rilevabile entro le prime quattro settimane di trattamento con i soli bNAb. Tutti i bambini hanno di nuovo raggiunto l’abbattimento della carica virale una volta ricominciato ad assumere la ART, anche se quelli che avevano valori più elevati ci hanno impiegato 19-20 settimane. La terapia con bNAb è risultata generalmente ben tollerata.
Il dott. Shapiro ha rimarcato la natura di mero proof-of-concept dello studio: la somministrazione di bNAb a pazienti adulti viene infatti sperimentata già da circa cinque anni, con risultati analoghi, mentre questo è il primo studio condotto su bambini così piccoli.
L’offerta più mirata del test HIV in paesi PEPFAR sta dando frutti
Il programma internazionale per l'AIDS degli Stati Uniti, il PEPFAR (President’s Emergency Plan for AIDS Relief) ha emendato le sue linee guida sull’offerta universale del test HIV nel 2019, passando a una politica di offerta mirata ai soggetti maggiormente esposti al rischio di contrarre l’infezione. Per fare il punto sulle tendenze in atto in materia di offerta del test HIV e ingresso nel percorso di cura delle persone risultate positive, gli autori di questo studio hanno analizzato i dati relativi a individui dai 15 anni di età in su, provenienti da 41 paesi che ricevono il sostegno del PEPFAR.
I test eseguiti sono aumentati dai 19 milioni del marzo 2016 fino a raggiungere un picco di 27 milioni nel settembre 2018; dopodiché, tuttavia, sono scesi a 16 milioni di test nel dicembre 2019, a seguito dell'implementazione delle nuove linee guida PEPFAR e prima dell’esplosione della pandemia. Nel giugno 2021 i test eseguiti sono stati 15 milioni.
La percentuale di risultati positivi è rimasta stabile a circa 5% tra il marzo 2016 e il settembre 2017, per scendere al 3% nel marzo 2018. Dal dicembre 2019 è di nuovo stabile al 4% circa.
Il numero di persone con una nuova diagnosi di HIV prese in carico dal sistema sanitario per seguire un percorso di cura è invece aumentato stabilmente nell’arco di tempo considerato, da un minimo del 66% registrato nel marzo 2016 a ben il 94% nel giugno 2021.
Il COVID-19 aumenta il rischio di esiti avversi alla nascita per le donne HIV+
COVID-19 e HIV sono entrambi associati a un aumentato rischio di eventi avversi alla nascita, ma si sa ancora poco circa l’impatto della combinazione di queste due infezioni in contesti dove la prevalenza HIV tra le donne in età fertile è elevata. La questione è particolarmente rilevante per le donne dell’Africa sub-sahariana, una regione ad alta prevalenza HIV dove l’accesso alla vaccinazione anti-COVID resta limitato.
Maya Jackson-Gibson della Northwestern University e la sua equipe hanno analizzato i dati raccolti da un sistema di sorveglianza ostetrica già attivo in Botswana, concentrandosi sugli esiti neonatali in 13 siti tra il settembre 2020 e il novembre 2021.
Le donne sono state incluse nello studio se avevano uno status HIV noto, davano alla luce un solo figlio e avevano eseguito il test per COVID-19 in un periodo compreso tra 14 giorni prima e massimo tre giorni dopo il parto. Nell’arco di tempo preso in considerazione dallo studio, sono state sottoposte a test per COVID-19 11.483 donne, di cui 539 sono risultate positive (il 4,7%): di queste, 144 erano affette da HIV.
In tutte le donne risultate positive al COVID-19 (31%) si sono osservati esiti avversi alla nascita più frequentemente che in quelle risultate negative (26%); e tra le donne HIV-positive questi eventi sono risultati marcatamente più numerosi tra quelle risultate positive al COVID-19 (43%), rispetto alle donne con infezione da HIV ma negative al COVID-19 (30%).
Dopo l’aggiustamento per età, le donne con HIV e COVID-19 risultavano esposte a un rischio maggiore del 78% di esiti avversi alla nascita di qualunque tipo; maggiore del 65% di un esito grave della nascita; maggiore del 50% di parti pretermine o molto pretermine; e maggiore del 65% che il bambino fosse piccolo per l’età gestazionale. La presenza di COVID-19 non ha invece mostrato di incidere sul rischio di morte in utero o morte neonatale.
In Botswana, la campagna vaccinale anti-COVID è stata avviata solo nella seconda metà del 2021, con priorità agli ultrasessantacinquenni; pochissime delle donne che hanno preso parte allo studio erano state vaccinate.
Farmaci anticolinergici associati a cadute e fragilità
L’impiego di farmaci con azione anticolinergica è risultato associato a cadute ricorrenti nelle persone con infezione da HIV, ha riferito a CROI 2022 la dott.ssa Jessica Doctor del Guy’s and St Thomas’ Hospital di Londra. E sembra che questi farmaci possano essere anche associati a fragilità.
Gli anticolinergici vengono comunemente prescritti per trattare disturbi della salute mentale, incontinenza urinaria e allergie. Svariati farmaci sono in qualche misura dotati di azione anticolinergica, ossia inibiscono l’azione di una sostanza chimica – detta acetilcolina – che è coinvolta nelle principali funzioni del sistema nervoso. Gli anticolinergici hanno effetti collaterali ben noti e il loro impiego prolungato è associato a esiti sfavorevoli nelle persone più anziane, tra cui cadute e fragilità.
La dott.ssa Doctor e la sua equipe hanno studiato l'impiego di questi farmaci in persone con HIV in età più avanzata. Per lo studio sono state arruolate 699 persone HIV-positive di età superiore ai 50 anni, residenti nel Regno Unito e in Irlanda. Gli autori hanno prima calcolato il potenziale anticolinergico di tutti i farmaci assunti dai partecipanti, ad esclusione degli antiretrovirali, per poi raccogliere i dati relativi alle cadute ricorrenti e altri indicatori di fragilità (più di tre tra quelli individuati in un indice basato sul modello di Fried: perdita di peso involontaria, spossatezza, ridotto livello di energia riferito, debolezza muscolare e lentezza di deambulazione).
I partecipanti avevano un’età mediana era di 57 anni, erano per l’88% maschi e per l’86% caucasici; il 99% assumeva una terapia antiretrovirale. A riferire cadute ricorrenti è stato il 9% dei partecipanti, e il 21% rientrava nella definizione di fragile secondo i criteri stabiliti.
Il 27% dei partecipanti ha riferito di assumere un farmaco anticolinergico. Questi pazienti sono risultati più inclini sia a riferire cadute (17%, contro il 6% dei pazienti che non assumevano anticolinergici) sia a soddisfare i criteri di fragilità (32% contro 17%).
Jessica Doctor ha esortato i medici a prendere consapevolezza dell’associazione tra questi farmaci e le cadute e altri indicatori di fragilità, e di sospenderne la somministrazione ogniqualvolta possibile.
Kenya, l’offerta di test della carica virale al point-of-care non migliora i tassi di soppressione virale nei bambini
Nei contesti a basso reddito, i tassi di soppressione virale dei bambini sono più bassi rispetto a quelli degli adulti: tra i bambini con HIV, inoltre, si ha un’elevata prevalenza di farmacoresistenze. L’intento di questo studio era appurare se l’offerta del test della carica virale al point-of-care – espressione con cui si intende un test da eseguirsi presso il sito di cura del paziente – e la conseguente possibilità di effettuare precocemente il test delle farmacoresistenze poteva accelerare il processo decisionale clinico, consentendo un miglioramento degli esiti terapeutici per i bambini con infezione da HIV.
I ricercatori hanno arruolato due gruppi di bambini kenioti HIV-positivi al primo o secondo regime antiretrovirale: il primo gruppo comprendeva bambini di 1-9 anni e il secondo di 10-14 anni. I giovani partecipanti sono stati randomizzati per eseguire il test della carica virale al point-of-care ogni tre mesi, seguito da un test delle farmacoresistenze se presentavano una carica virale superiore a 1000; oppure lo standard di cura, che consisteva nell’esecuzione di un il test della carica virale ogni sei mesi e il test delle resistenze solo in caso di fallimento del regime di seconda linea.
Dopo12 mesi aveva ottenuto l’abbattimento della carica virale sotto le 1000 copie il 90,4% dei partecipanti del gruppo di intervento e il 91,7% di quelli del gruppo di controllo: una differenza non significativa. Nel gruppo di intervento si sono verificati 138 eventi di fallimento virologico. I test delle farmacoresistenze sono stati eseguiti con successo per l'89% dei campioni, e in ogni singolo campione sono stata individuate mutazioni.
Gli autori dello studio sono convinti di essersi fatti sfuggire, al momento dell’arruolamento, i bambini più vulnerabili al rebound virale: la coorte aveva tassi di soppressione virale relativamente buoni già all’inizio dello studio. Anche il miglioramento dell’offerta di servizi HIV in atto al momento dello studio, in particolare l'introduzione del dolutegravir, può aver contribuito a migliorare i tassi di soppressione virale. Tuttavia, gli studiosi ammettono anche che il monitoraggio della carica virale in sé potrebbe non essere la chiave per affrontare alla radice le ragioni del rebound virale nei bambini, che dunque potrebbero aver bisogno di un sostegno più trasversale.