Infezioni HIV in calo del 30% con offerta universale di test e trattamento
Nello studio PopART è stato valutato l’impatto sull’incidenza HIV di interventi in cui veniva offerta la possibilità di eseguire il test a domicilio e una serie di attività mirate ad agevolare la presa in cura di chi risultava positivo, coadiuvate dall’erogazione di farmaci antiretrovirali da parte dei servizi sanitari. Si tratta del più ampio studio sperimentale mai tentato: nelle 21 comunità urbane dello Zambia e del Sudafrica dove è stato condotto vive infatti circa un milione di persone.
Lo studio si è avvalso del lavoro sul territorio di operatori che si sono recati di casa in casa, sistematicamente e in ogni area geografica, per offrire test a domicilio e counselling. Chi risultava HIV-positivo veniva inviato a strutture mediche dove poteva ricevere le terapie antiretrovirali.
Nell’arco dell’anno, gli operatori tornavano poi a visitare le famiglie per verificare l’esito dell’invio ed eventualmente offrire la possibilità di fare il test ai membri del nucleo familiare che non fossero stati presenti alla visita precedente o avessero declinato l’offerta la prima volta. Il professor Richard Hayes, presentando i risultati dello studio, ha rimarcato che l’obiettivo era testare l’offerta universale non solo del trattamento ma anche del test e degli interventi di sostegno all’ingresso nel percorso di cura.
Nelle comunità dove sono stati attuati questi interventi – con il trattamento iniziato secondo quanto raccomandato nelle linee guida nazionali – si è registrata un’incidenza HIV inferiore del 30% rispetto a quelle dove erano offerti soltanto i servizi sanitari standard.
Alcuni risultati dello studio sono invece meno netti. C’è infatti un terzo gruppo che ha ricevuto l’offerta attiva di test, counselling e trattamento, e nel quale però il calo dell’incidenza si è fermato al 7%. Gli autori dello studio stanno ora approfondendo le ragioni di questo scarto.
“Nel complesso, comunque, i risultati sembrano comprovare in modo molto convincente che questi interventi siano efficaci”, ha commentato Hayes. “L’attività di offerta universale di test e aggancio alle cure sul territorio costituisce una componente chiave delle strategie di prevenzione combinata negli sforzi globali per tenere sotto controllo l’epidemia da HIV.”
Londra, epatite C in calo negli MSM HIV-positivi
La dott.ssa Lucy Garvey, presentando questi risultati, ha detto che le cause di questo calo sono in gran parte ravvisabili nell’offerta di programmi per lo screening regolare dell’HCV da un lato e dell’effetto del ‘trattamento-come-prevenzione’ dato dall’ampliamento dell’offerta di terapie a base di antivirali ad azione diretta (DAA) dall’altro. L’équipe di ricercatori ha valutato i trend di incidenza dell’infezione acuta da HCV tra MSM HIV-positivi tra il luglio 2013 e il giugno 2018.
Questo studio retrospettivo ha coinvolto circa 6000 uomini HIV-positivi a rischio di contrarre l’epatite C che facevano capo a tre centri medici operanti nel centro di Londra. Il tasso di nuove infezioni da HCV ha registrato un picco nel 2015, raggiungendo i 17 casi per 1000 persone/anno: dopodiché ha però iniziato a calare vertiginosamente e costantemente, arrivando a sole sei nuove infezioni e tre prime infezioni in totale per persone/anno nel 2018. Dal 2013 al 2016 le terapie anti-HCV venivano iniziate in media 23 mesi dopo la diagnosi, mentre dal 2016 in poi la maggior parte dei pazienti ha ricevuto i trattamenti nell’ambito di trial clinici e questo lasso di tempo si è ridotto, in media, a 10 mesi.
Alla Conferenza è stato però presentato anche un altro studio in materia, che getta qualche dubbio sulla possibilità di sconfiggere l’epidemia da HCV attraverso la via farmacologica. Si tratta di uno studio condotto a New York che ha riscontrato in maschi gay e bisessuali già guariti dall’epatite C una recrudescenza dell’infezione sette volte maggiore rispetto al tasso di infezione iniziale.
Descovy non inferiore al Truvada per la PrEP giornaliera
Attualmente, l’unico farmaco autorizzato per la profilassi pre-esposizione (PrEP) assunta per via orale è una formulazione combinata di tenofovir disoproxil fumarato (TDF) ed emtricitabina prodotta da Gilead Sciences con il nome commerciale di Truvada ma in molti paesi disponibile anche in versione generica. Il TDF è efficace e dà pochi effetti collaterali, ma in taluni casi è associato a problemi renali od ossei.
Gilead ha recentemente messo a punto una nuova formulazione, il tenofovir alafenamide (TAF), meno tossico per reni e ossa. Essendo un nuovo prodotto, è ancora coperto da brevetto e dunque non è disponibile in versione generica. Il TAF è contenuto in varie compresse combinate impiegate nei regimi antiretrovirali, tra cui Descovy. Ne è stato testato l’uso nel trattamento dell’HIV, ma per la PrEP finora no.
Il dott. Brad Hare ha presentato a CROI 2019 i risultati dello studio DISCOVER, un trial controllato randomizzato volto a valutare efficacia e sicurezza della combinazione TAF/emtricitabina per la profilassi pre-esposizione di maschi che fanno sesso con maschi e donne transgender a rischio di contrarre l’infezione da HIV.
I 5387 partecipanti sono stati arruolati tra il settembre 2016 e il maggio 2017 in undici paesi del Nord America e dell’Europa e sono stati randomizzati per ricevere una somministrazione giornaliera di TAF/emtricitabina oppure TDF/emtricitabina.
Al termine dello studio, nel gennaio 2019, si erano verificati 22 eventi di infezione HIV. Quindici di essi sembravano essere imputabili a un’aderenza terapeutica scarsa o minima. In cinque casi l’infezione era probabilmente stata contratta poco prima del reclutamento nello studio. In due casi, uno per braccio, l’infezione è invece avvenuta malgrado i pazienti presentassero livelli di farmaco “adeguati”.
Si sono verificate meno infezioni nel braccio del TAF rispetto a quello del TDF, ma la differenza non è risultata statisticamente significativa: ciò significa che il TAF ha mostrato di essere “non inferiore” al TDF nel prevenire l’infezione con HIV, ma neppure superiore. Come atteso, invece, la nuova formulazione è risultata migliore in termini di sicurezza per ossa e reni, anche se i lievi cambiamenti evidenziati nei biomarcatori renali e ossei potrebbero non essere clinicamente significativi.
Morte cardiaca improvvisa più diffusa nei pazienti HIV+
Due studi presentati a CROI 2019 hanno esaminato l’incidenza della morte cardiaca improvvisa nei pazienti con infezione da HIV. Gli autori hanno riscontrato che i decessi per morte cardiaca improvvisa sono sensibilmente più frequenti nella popolazione HIV-positiva rispetto alla popolazione generale, e inoltre nei pazienti con HIV c’erano maggiori probabilità che fossero associati a overdose o insufficienza renale, oltre che a basse conte dei CD4 e una carica virale rilevabile.
La morte cardiaca improvvisa sopraggiunge a causa di un malfunzionamento dell’attività elettrica del cuore a seguito di un’aritmia, ossia un’alterazione di ritmo del battito cardiaco. A causare l’aritmia può essere una patologia cardiaca, un collasso, un trauma o un’overdose. L’arresto cardiaco improvviso può essere trattato con un defibrillatore, uno strumento che eroga una scarica elettrica per ripristinare il normale ritmo cardiaco, oppure con la rianimazione cardiopolmonare (RCP).
Un team di ricercatori ha preso in considerazione casi di morte cardiaca improvvisa verificatisi al di fuori del contesto ospedaliero nella contea di San Francisco tra il 2011 e il 2016. Gli studiosi hanno individuato 47 decessi di persone HIV-positive e 505 di persone HIV-negative e hanno messo a confronto i due gruppi. Quello degli HIV-positivi era composto da persone notevolmente più giovani e con più probabilità di avere precedenti di infarto, una diagnosi di disturbi psichiatrici e una dipendenza da sostanze stupefacenti, alcol o tabacco.
Le autopsie hanno individuato casi di ‘overdose occulta’, ossia in cui l’abuso di stupefacenti non è stato evidente fino a che non è stata effettuata l’autopsia stessa. È stato causato da overdose occulta poco più di un terzo dei decessi nel gruppo HIV+, contro solo il 13% nell’altro gruppo. Anche l’insufficienza renale è risultata una causa di morte più diffusa in questo gruppo (6%, contro solo l’1% nel gruppo degli HIV-negativi).
L’altro team ha invece studiato i casi di morte cardiaca improvvisa in un gruppo di veterani delle forze armate statunitensi tra il 2003 e il 2014. Del totale dei 144.362 veterani considerati, 43.413 avevano un’infezione da HIV, quasi tutti erano di sesso maschile e l’età mediana era di 50 anni.
Gli eventi di morte cardiaca improvvisa verificatisi nel gruppo HIV+ sono stati 777; i ricercatori hanno calcolato che il rischio di morte per arresto cardiaco improvviso in questo gruppo era più elevato del 15%, ma solo se la conta dei CD4 era bassa (al di sotto delle 200 copie) o la carica virale era al di sopra dei livelli di rilevabilità.
In entrambi i gruppi il rischio è risultato più elevato in concomitanza con notori fattori di rischio legati allo stile di vita come il fumo, ma anche con patologie pre-esistenti come malattie cardiache, epatite C e patologie polmonari croniche.
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