Sudafrica, rischio di morte per COVID-19 lievemente più alto nelle persone HIV+
Un’analisi condotta nella provincia del Capo Occidentale, in Sudafrica, ha evidenziato che la coinfezione con HIV fa lievemente aumentare il rischio di morte per COVID-19 e circa l’8% delle morti per COVID-19 nella provincia sono imputabili all’HIV. L’aumento del rischio di morte è comunque modesto, e anche se il Sudafrica è un paese a forte prevalenza HIV, il numero di decessi resta poco elevato.
I risultati dell’indagine sono stati presentati dalla dott.ssa Mary-Ann Davies del locale dipartimento sanitario alla 23° Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2020: Virtual), in corso questa settimana in modalità virtuale.
L’analisi ha preso in considerazione circa 3,5 milioni di adulti in carico al servizio sanitario pubblico nella provincia del Capo Occidentale, nelle strutture sia ospedaliere che territoriali. Si sono diagnosticati 22.308 casi di COVID-19, tra cui 625 decessi. I maggiori fattori di rischio di morte per COVID-19 erano età avanzata e diabete; anche tubercolosi e infezione da HIV sono risultati fattori di rischio, ma meno importanti.
Tenuto conto del numero atteso di morti per COVID-19 in base alla ripartizione per età e sesso della popolazione HIV-positiva, i ricercatori hanno calcolato che il rapporto standardizzato di mortalità (l’aumento dei decessi in rapporto a quelli attesi) per le persone con HIV era di 2,39, e che circa l’8% delle morti per COVID-19 poteva essere imputato all’HIV. I pazienti con una carica virale superiore a 1000 o una conta dei CD4 inferiore a 200 sono risultati a rischio lievemente più elevato di morte rispetto a quelli virologicamente soppressi.
La dott.ssa Davies ha sottolineato che l’aumento del rischio di morte per COVID-19 nelle persone HIV+ è modesto e che potrebbe anche essere stato sovrastimato se sono stati trascurati altri fattori di confondimento (come lo stato socio-economico e le comorbidità).
PrEP “on-demand” altamente efficace, ma la posologia può creare qualche confusione
La PrEP intermittente o “on demand” consiste nell’assunzione di due compresse di tenofovir disoproxil fumarato/emtricitabina (Truvada) tra le 2 e le 24 ore prima di avere rapporti sessuale, un’altra compressa dopo 24 ore dalle prime due e un’ultima dopo altre 24 ore, ragion per cui viene detta anche PrEP 2-1-1.
La PrEP “on demand” era risultata altamente efficace nei maschi gay e bisessuali e nelle donne transgender che hanno preso parte allo studio francese IPERGAY ed il suo impiego in questi gruppi di popolazione è approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non è ancora raccomandata negli Stati Uniti ma è offerta come opzione in alcuni contesti sanitari. Non ne è invece ancora stata comprovata l’efficacia per altri gruppi di popolazione.
Lo studio di San Francisco ha preso in considerazione un totale di 3300 uomini cisgender e donne transgender. I partecipanti hanno ricevuto informazioni sulla PrEP giornaliera e intermittente e potevano scegliere liberamente tra i due regimi. Tra coloro che iniziavano per la prima volta il trattamento, il 70% ha optato per l’assunzione giornaliera e il restante 30% per quella intermittente. Tra gli utenti del centro che invece già assumevano giornalmente i farmaci, il 21% ha deciso di passare al regime intermittente. Complessivamente ha optato per la PrEP “on demand” il 24% di tutti i partecipanti. Entrambi i regimi si sono mostrati altamente efficaci e l’aderenza è risultata elevata. Si è registrato un solo evento di sieroconversione per HIV in ognuno dei due gruppi, ed entrambi i casi sono stati ricondotti a scarsa aderenza.
Alla conferenza è stato però presentato anche uno studio francese che ha raccolto le testimonianze di operatori sanitari attivi sul territorio riguardo l’offerta della PrEP intermittente, da cui emerge come la posologia di questo regime possa ingenerare qualche confusione. Per semplificare le cose, gli operatori promuovono l’idea di iniziare e interrompere l’assunzione dei farmaci senza fare distinzioni tra un regime e l’altro: gli MSM (uomini che fanno sesso con uomini) che iniziano il trattamento prenderanno le prime due compresse tra le 2 e le 24 ore prima di avere rapporti, poi una compressa al giorno finché continuano ad averne, e infine una compressa al giorno per i due giorni successivi all’ultimo rapporto.
Sudafrica, netto calo delle infezioni HIV con l’offerta di PrEP alle donne
Lo studio ECHO era finalizzato a verificare se l’impiego di contraccettivi aumentasse il rischio di infezione da HIV. Vi hanno partecipato 7829 donne in quattro paesi africani, che sono state randomizzate per ricevere tre diversi metodi contraccettivi e non è emersa alcuna evidenza di aumento del rischio HIV.
A seguito di un consulto tra gli autori e altre parti interessate, verso la fine dello studio è stato deciso di rendere disponibile la PrEP alle partecipanti del Sudafrica. Delle 2043 donne ancora arruolate al momento dell’introduzione della PrEP, 543 (26,6%) hanno iniziato il trattamento.
L’incidenza HIV è scesa dal 5% circa registrato prima dell’introduzione della PrEP a circa il 2%. Altrimenti detto, è bastato che il 25% delle partecipanti assumesse la PrEP per far crollare di oltre il 50% il tasso di infezione da HIV. Il motivo per cui l’introduzione della PrEP ha avuto un impatto apparentemente così sproporzionato rispetto all’effettivo uso da parte delle partecipanti è che le donne che hanno assunto il trattamento appartenevano in grandissima parte a gruppi ad alto rischio.
Tasso di trasmissione verticale all’1,8% a Khayelitsha, Sudafrica
È il dato che emerge dall’analisi retrospettiva delle nascite da madri HIV-positive in carico presso una serie di strutture per l’assistenza prenatale di Khayelitsha nel 2017.
La prevalenza HIV nelle donne che si sono rivolte a queste strutture era del 31%; al momento della prima visita, l’88% delle utenti con infezione da HIV erano già al corrente del loro status sierologico e il 78% assumeva già una terapia antiretrovirale (ART). Complessivamente, il 95% delle utenti HIV-positive aveva sia ricevuto la diagnosi che iniziato la ART prima del parto. La copertura diagnostica subito dopo la nascita è risultata non ottimale, ma entro le 10 settimane il 94% dei bambini veniva sottoposto al test PCR per rilevare l’eventuale presenza di infezione.
Sebbene il tasso complessivo di trasmissione materno-fetale sia dell’1,8%, si sono osservate differenze anche rimarchevoli in base al momento in cui era stata diagnosticata l’infezione alla madre: se la diagnosi risaliva a prima delle cure prenatali, il tasso era dell’1,4%; se veniva fatta nell’ambito delle cure prenatali, il tasso saliva al 2,3%; se invece veniva fatta dopo il parto, si arrivava al 10%.
Scarsa aderenza nei giovani associata a eventi impattanti
Sono stati raccolti dati riguardanti 900 ragazzi con HIV di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Per la maggior parte (83%) erano di sesso femminile e due terzi erano in trattamento antiretrovirale da oltre sei mesi.
Gli eventi più spesso riferiti dai giovani partecipanti allo studio sono risultati la gravidanza o il parto (16%) e un trasloco (16%). Sono stati indicati abbastanza frequentemente anche eventuali malattie, l’inizio o l’interruzione degli studi o di un lavoro, lutti in famiglia, problemi sentimentali e interrelazionali e l’intreccio di una relazione con un nuovo partner sessuale, tutti citati dall’8 o 9% degli intervistati.
Spesso gli eventi si sovrapponevano: il 17% degli intervistati ha infatti indicato due diversi eventi significativi avvenuti più o meno nello stesso periodo. Per i giovani che riferivano due eventi concomitanti le probabilità di raggiungere la soppressione virale erano dimezzate rispetto agli altri, mentre un solo evento non è risultato in sé associato alla mancata soppressione.
Anche il 17% dei partecipanti che ha dichiarato di bere alcol è risultato avere probabilità inferiori di abbattere la viremia. Di contro, chi aveva informato i familiari o il partner del proprio stato sierologico aveva il doppio delle probabilità di essere virologicamente soppresso.
Benefici della riduzione del danno in Ucraina e Tanzania
Oltre 42.000 consumatori di stupefacenti per via iniettiva hanno preso parte a un progetto di biosorveglianza condotto in 31 città sparse in tutta l’Ucraina negli anni 2009, 2011, 2013, 2015 e 2017. Circa un terzo dei partecipanti erano persone assistite dalle ONG, un quinto era di sesso femminile e la prevalenza HIV era del 22%.
Chi era assistito da un’ONG aveva maggiori probabilità di fare il test dell’HIV, di usare preservativi e aghi sterili, di ricevere una terapia agonista per dipendenza da oppiacei e, se HIV-positivi, di assumere una terapia antiretrovirale.
Uno studio separato condotto sempre su consumatori di stupefacenti per via iniettiva in Tanzania ha evidenziato un duraturo miglioramento nei tassi di adesione al test HIV e nel ricorso a dispositivi sterili per l’iniezione nel corso di 12 anni, e nello stesso periodo si è anche osservata una drastica diminuzione della prevalenza HIV.
Come dimostrano questi studi, investendo in servizi mirati ai consumatori di stupefacenti per via iniettiva si possono ottenere durature diminuzioni dei comportamenti a rischio, rafforzare il loro coinvolgimento in tutte le fasi del continuum di cure e contribuire a ridurre i tassi di infezione da HIV in questo gruppo di popolazione ad alto rischio.
I figli di madri HIV+ crescono bene quanto quelli con madri HIV-negative
Uno studio condotto in Sudafrica ha seguito un gruppo di bambini HIV-negativi nati da madri con HIV concludendo che, in linea generale, nei primi cinque anni di vita crescono altrettanto bene di quelli che hanno madri HIV-negative, in termini sviluppo fisico e psicologico. E questo malgrado la presenza di più indicatori di svantaggio sociale.
Per lo studio è stato reclutato un gruppo di donne in gravidanza di Città del Capo, Sudafrica, tra il 2009 e il 2010. Ad oggi, i ricercatori hanno seguito i figli di 1150 donne fino all’età di otto anni. Il 32% delle madri sono HIV-positive, ma solo una minoranza di loro ha assunto con continuità una terapia antiretrovirale.
Le partecipanti HIV-positive e -negative avevano un profilo socioeconomico simile, che riflette quanto sia dura la vita nelle township. Soltanto il 16% aveva un lavoro regolare e solo il 31% viveva in alloggi formali (cioè ha una vera e propria casa). Spesso non avevano abbastanza da mangiare, soprattutto le donne HIV-positive e i loro figli.
Tra i due gruppi di bambini sono state osservate lievi differenze di peso alla nascita, che però nel giro di sei mesi si sono attenuate fino a non essere più significative, mentre non sono state segnalate differenze per altezza, sviluppo psicologico e comportamento.
Gli autori dello studio hanno definito questi risultati “inattesi”, dato che svariati studi precedenti avevano mostrato come i figli HIV-negativi di madri positive risultassero invece svantaggiati. Gran parte di quegli studi, tuttavia, si basavano solo su dati relativi ai primi uno o due anni di vita dei bambini, mentre questa coorte è stata seguita a lungo termine. I risultati comunque potrebbero anche essere ascritti al generale miglioramento delle condizioni di salute delle madri HIV-positive negli ultimi anni.
aidsmapLIVE: speciale AIDS 2020
Il prossimo giovedì 9 luglio NAM trasmetterà uno speciale aidsmapLIVE AIDS 2020. Si uniranno a Susan Cole per commentare le notizie più importanti della Conferenza la dott.ssa Laura Waters, chair della British HIV Association; il dott. Anton Pozniak, presidente dell’International AIDS Society; la prof.ssa Linda-Gail Bekker, vice-direttore del Desmond Tutu HIV Centre; Lucy Wanjiku Njenga, plenary speaker ad AIDS 2020; e Gus Cairns di NAM/aidsmap.
Chi si fosse perso la diretta può rivederla in qualsiasi momento sulle pagine Facebook, Twitter e YouTube di NAM - aidsmap oltre che sul sito aidsmap.com.
Analisi scientifica a cura di Clinical Care Options
Clinical Care Options, in qualità di partner ufficiale della Conferenza Internazionale sull’AIDS 2020 per l’analisi scientifica, offrirà sintesi degli studi presentati all’evento, presentazioni PowerPoint scaricabili e approfondimenti nella sezione ClinicalThought.