Ucraina, servizi HIV resilienti ma sotto pressione
Olga Gvozdetska, vicedirettrice generale ad interim del Centro per la Salute Pubblica del Ministero della Salute ucraino, ha descritto la situazione del paese alla 19° Conferenza Europea sull'AIDS (EACS 2023), tenutasi la scorsa settimana a Varsavia, in Polonia. “Dal 24 febbraio 2021, con la guerra, è cambiato tutto,” ha detto.
Sono ormai 414 gli ospedali ucraini danneggiati o distrutti, e 254 gli operatori sanitari rimasti uccisi o gravemente feriti.
Lo stato dei servizi per l'HIV nelle aree occupate è sconosciuto. Nelle aree controllate dal governo, invece, le persone in terapia antiretrovirale (ART) sono passate dalle 130.000 del 2021 alle 121.000 di quest'anno. Anche le nuove diagnosi sono diminuite, da 16.658 nel 2021 a 12.292 nel 2022; mentre la percentuale di diagnosi tardive, intese come diagnosi fatte quando la conta dei CD4 era già inferiore a 350, è aumentata dal 56% al 65%.
Tengono per ora sia la percentuale di persone con infezione da HIV consapevoli del proprio stato sierologico che quella di persone in trattamento che hanno ottenuto la soppressione virale; la percentuale di persone HIV+ che assume la terapia antiretrovirale è però scesa dall'83% dello scorso anno al 77% di quest'anno.
L'Ucraina ha poi registrato una netta inversione di tendenza sul fronte della sicurezza dei finanziamenti per la salute, ha aggiunto Gvozdetska. Nel 2021 i servizi di prevenzione, trattamento e cura dell'HIV erano stati per la prima volta sovvenzionati dal governo ucraino, ma nel 2022 c'è stato un immediato dietrofront: l'85% del budget per l'HIV è stato coperto dal Fondo Globale e dal PEPFAR. Nel 2023, invece, il governo non ha stanziato neanche una parte dei finanziamenti per l'HIV.
Fenomeni come migrazione interna e sfollamento hanno inoltre inciso sulla geografia dei servizi, ora necessari in luoghi diversi rispetto a prima. Circa cinque milioni di persone si sono infatti spostate dai fronti orientali alla relativa sicurezza della parte occidentale del paese, e altrettante si sono trasferite all'estero.
Molti cittadini ucraini residenti all'estero tornano in patria per accedere alla terapia antiretrovirale, ma il numero di persone che usufruiscono di cure fuori dal paese è aumentato nell'ultimo anno. All'inizio il paese che ha accolto il numero di gran lunga maggiore di rifugiati dall'Ucraina è stata la Polonia, ma molte di queste persone si sono poi ritrasferite: si stima che gli 1,6 milioni di rifugiati ucraini della Polonia costituiscano il 27% del totale europeo. Ciò nonostante, i cittadini ucraini che usufruiscono di cure per l'HIV in Polonia sono aumentati dai 2500 del 2022 ai 3396 di quest'anno. E molti di loro prima venivano curati in Ucraina.
Sono però sempre di più le persone che ricevono la prima diagnosi di HIV in Polonia. Il prof. Miłosz Parczewski, presidente della Società Scientifica per l'AIDS polacca, ha riferito alla Conferenza che su 216 rifugiati ucraini a cui l'infezione da HIV è stata diagnosticata in Polonia, quasi il 70% erano casi di diagnosi tardiva, e tra questi il 40% aveva una patologia AIDS-definente, in genere la tubercolosi.
Terapia iniettabile a lunga durata d'azione risulta altamente efficace in studi di coorte europei
Uno studio condotto nei Paesi Bassi ha mostrato che il trattamento iniettabile long-acting con cabotegravir e rilpivirina non comportava tassi più elevati di rebound virale al di sopra delle 200 copie. In cinque dei casi in cui si è verificato un rebound virale, tuttavia, i ricercatori hanno osservato lo sviluppo di una resistenza di alto livello a uno o a entrambi gli agenti iniettabili, il che potrebbe limitare drasticamente le future opzioni terapeutiche.
La coorte ATHENA è uno studio nazionale che segue quasi tutti i pazienti in cura per l'HIV nei Paesi Bassi. Alla Conferenza sono stati descritti gli outcome relativi a 619 partecipanti di ATHENA passati al trattamento iniettabile a lunga durata d'azione prima del settembre 2023.
Per valutare il rischio di fallimento terapeutico, ogni paziente passato al regime iniettabile è stato abbinato ad altre due persone, sempre appartenenti alla coorte, che invece non avevano cambiato terapia. In termini di tasso di fallimento virologico, non sono emerse differenze significative tra le persone che sono passate al trattamento iniettabile (0,9%) e il gruppo di controllo (1,8%).
La dott.ssa Annemarie Wensing dell'University Medical Center di Utrecht ha riferito di cinque casi di fallimento virologico, verificatisi in tre uomini e due donne, di cui una transgender. Tutti avevano ricevuto il trattamento iniettabile a intervalli di due mesi, come da prescrizione.
Il rebound più precoce è stato osservato tre mesi dopo lo switch alla terapia iniettabile. Si è verificato in un paziente che non aveva preliminarmente assunto la terapia per via orale per un mese come raccomandato quando la terapia iniettabile a base di cabotegravir più rilpivirina è stata per la prima volta approvata in Europa; la sua carica virale è tornata a salire e ha raggiunto le 830.000 copie. L'uomo aveva però una resistenza rilevabile alla rilpivirina.
In un secondo paziente, dopo una prima misurazione che dava la carica virale rilevabile ma ferma a 260, le copie sono risalite a quota 610.000. Il paziente ha sviluppato una resistenza incrociata agli inibitori dell'integrasi e agli NNRTI.
In tutti i casi di rebound, i livelli di almeno un farmaco sono risultati non ottimali, ma sul rapporto tra concentrazioni dei farmaci e fallimento terapeutico sono necessari ulteriori approfondimenti.
Secondo gli autori dello studio, è possibile che la risposta al trattamento sia stata influenzata da alcune caratteristiche individuali dei pazienti, tra cui un elevato indice di massa corporea. In tutti i casi, però, il fallimento terapeutico ha comportato lo sviluppo di un'alta resistenza incrociata, compromettendo future opzioni terapeutiche – ed è naturalmente stato un brutto colpo sia per i pazienti che per la loro equipe sanitaria.
Jessy Duran Ramirez dell'Università di Zurigo, in Svizzera, ha descritto gli outcome di 264 pazienti passati al trattamento iniettabile.
Meno del 3% dei partecipanti allo studio Swiss HIV Cohort ha cambiato terapia: da un questionario somministrato ai partecipanti è emersa un'elevata soddisfazione per il trattamento orale, ma anche la preoccupazione che doversi sottoporre all'iniezione una volta ogni due mesi possa limitare la loro libertà. Ci sarebbero più persone interessate a passare al trattamento iniettabile se l'intervallo tra un'iniezione e l'altra fosse di sei mesi.
Otto delle 264 persone passate al trattamento iniettabile lo hanno successivamente interrotto. Due hanno manifestato reazioni avverse al farmaco; una aveva basse concentrazioni ematiche di rilpivirina; quattro hanno interrotto per motivi non legati al trattamento, e una per fallimento virologico.
Anche da uno studio condotto a Brighton, nel Regno Unito, è emerso che non tutte le persone eleggibili decidevano di abbandonare il trattamento orale per quello iniettabile, dopo averne discusso con il medico. Su 160 persone esaminate, 52 sono risultate ineleggibili (principalmente a causa di resistenza, viremia rilevabile o interazioni farmacologiche), 57 hanno rifiutato lo switch terapeutico e solo 33 sono passate al trattamento iniettabile a lunga durata d'azione; queste ultime, comunque, sono tutte rimaste virologicamente soppresse.
Francia, le donne assumono la PrEP ma solo le donne transgender la continuano nel tempo
Tra aprile 2017 e aprile 2023, sono state valutate per il trattamento con la PrEP 175 donne, di cui 161 l'hanno effettivamente iniziato. 97 erano transgender e 64 cisgender. La maggior parte (125) proveniva dal Sudamerica, 28 dalla Francia o da altre parti d'Europa e otto dall'Africa sub-sahariana.
Ad aprile 2023, 90 donne avevano smesso di assumere la PrEP. L'analisi multivariata ha mostrato che le donne transgender avevano il 64% di probabilità in meno di interrompere il trattamento rispetto alle donne cisgender.
Metà delle donne cisgender ha abbandonato la PrEP dopo soli cinque mesi; di contro, metà delle donne transgender l'ha interrotta non prima di 20 mesi da quando aveva iniziato ad assumerla.
Il prof. Jean-Michel Molina, il più noto ricercatore francese in materia di PrEP, ha riferito alla Conferenza che in Francia gli uomini omo- e bisessuali con un rischio HIV tale da giustificare l'assunzione della PrEP sono circa 142.000. Al momento però la assumono solo 42.000 di loro, ossia appena il 29,5% di quelli che ne avrebbero bisogno.
Eppure sembra una percentuale enorme in confronto a quella delle persone appartenenti ad altre popolazioni chiave, come le donne transgender e i consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva: meno dell'1% delle persone appartenenti a questi altri gruppi a rischio HIV, riporta Molina, assume la PrEP.
L'inibitore di PD-1 budigalimab potrebbe essere in grado di ritardare il rebound virale
Il PD-1 è un recettore identificato come 'checkpoint immunitario' presente sulle cellule immunitarie esauste (non più in grado di innescare risposte difensive). Normalmente, esso sopprime l'attività delle cellule T, impedendo al sistema immunitario di attaccare i tessuti dell'organismo; alcuni tumori, però, sono in grado di sfruttare il PD-1 per disattivare le risposte immunitarie contro le cellule maligne. Allo stesso modo, in presenza di infezione da HIV tipicamente si osserva una sovraregolazione del PD-1 e una risposta immunitaria attenuata da parte delle cellule T.
Gli inibitori del checkpoint che prendono di mira il PD-1 sono in grado di ripristinare l'attività delle cellule T, e gli inibitori PD-1 sono ampiamente utilizzati per l'immunoterapia oncologica. Il prof. Jean-Pierre Routy del McGill University Health Centre di Montreal, nel suo intervento alla Conferenza, ha detto che in teoria gli inibitori PD-1 potrebbero anche invertire l'esaurimento funzionale delle cellule T ripristinando la funzione immunitaria nelle persone con infezione da HIV, e potenzialmente anche fungere da agente di inversione della latenza, "stanando" il virus nascosto nelle cellule e rendendolo attaccabile.
Il budigalimab è un inibitore PD-1 attualmente allo studio come approccio terapeutico per arrivare a tenere a bada l'HIV senza l'ausilio dei farmaci (cura funzionale, o remissione).
Alla Conferenza, Routy ha presentato i risultati di due piccoli studi sul budigalimab condotti negli Stati Uniti e in Canada.
Il primo studio ha valutato la sicurezza e la farmacocinetica di una singola infusione endovenosa (10 mg) o iniezione sottocutanea (10-20 mg) di budigalimab in 32 persone in terapia antiretrovirale soppressiva, senza interruzione del trattamento.
Il secondo studio prevedeva invece un'interruzione analitica del trattamento attentamente monitorata. Per lo studio sono state arruolate 41 persone in terapia antiretrovirale con carica virale non rilevabile. Nella prima fase, 20 partecipanti hanno ricevuto due dosi di budigalimab da 2 mg o 10 mg tramite infusione endovenosa a distanza di quattro settimane l'una dall'altra, mentre cinque hanno ricevuto un placebo. Hanno assunto il trattamento per quattro settimane, e dovevano interrompere la terapia antiretrovirale al ricevimento della seconda dose; due persone hanno preferito non interromperla.
Nella seconda fase, 11 persone hanno ricevuto quattro dosi di budigalimab da 10 mg a distanza di due settimane, mentre cinque hanno ricevuto un placebo. Tutti hanno interrotto l'assunzione di antiretrovirali al ricevimento della prima dose. Questo è il gruppo che è stato al centro dell'analisi esplorativa di efficacia.
I partecipanti ricominciavano ad assumere la terapia antiretrovirale se la loro carica virale raggiungeva o superava le 1000 copie per quattro settimane; se la conta dei CD4 scendeva sotto 350 o diminuiva di oltre il 30% rispetto al basale; se manifestavano sintomi associati all'HIV; e infine, in caso di gravidanza. I partecipanti o gli autori dello studio, poi, potevano anche decidere di (far) ricominciare ad assumere la terapia in qualsiasi momento.
In entrambi gli studi combinati, il budigalimab è risultato generalmente sicuro e ben tollerato.
Il tempo mediano perché si osservasse un rebound virale è stato di 29 giorni nel gruppo del budigalimab contro 21 giorni nel gruppo del placebo. Sei dei nove pazienti trattati con budigalimab che hanno completato la seconda fase sono stati considerati buoni responder. In questo gruppo, il picco di carica virale dopo il rebound è stato di circa 10.000, contro circa 100.000 nel gruppo placebo.
Due degli undici partecipanti che hanno ricevuto quattro dosi di farmaco hanno mantenuto la soppressione virale senza l'ausilio dei farmaci per ben un anno e mezzo.
Sulla base di questi risultati, secondo gli autori merita avviare ulteriori studi sul budigalimab.