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Primo caso di apparente remissione dall'HIV dopo trapianto con staminali prive di mutazione in CCR5 | ||
Il caso è stato presentato alla 12° Conferenza dell'International AIDS Society sull'HIV (IAS 2023) in corso questa settimana a Brisbane, in Australia. L'uomo, che ha da poco passato i cinquant'anni, aveva ricevuto la diagnosi di HIV nel 1990 e assumeva la terapia antiretrovirale (ART) dal 2005. Dopo aver sviluppato una rara e aggressiva forma di cancro, si è sottoposto a chemioterapia e radioterapia total body, per poi ricevere il trapianto di cellule staminali nel 2018. Nei precedenti casi in cui un paziente era stato dichiarato "curato" dall'HIV, le cellule staminali impiegate per il trapianto provenivano da donatori con una rara mutazione genetica (nota come CCR5-delta-32), che comporta l'assenza dei co-recettori CCR5 sui linfociti T: tale assenza, di fatto, impedisce all'HIV di penetrare nelle cellule. Stavolta, però, non erano disponibili donatori compatibili che presentassero questa mutazione. L'intervento di trapianto di staminali è riuscito, ma successivamente l'uomo ha manifestato una complicanza nota come malattia del trapianto contro l'ospite (graft-versus-host disease, o GvHD) in forma sia acuta che cronica, ed è stato trattato con farmaci immunosoppressivi tra cui il ruxolitinib. Tre anni dopo il trapianto, nel novembre 2021, ha sospeso sotto stretto controllo medico l'assunzione della ART. Oggi, a 20 mesi dall'interruzione delle terapie antiretrovirali, il paziente continua a presentare livelli di HIV non rilevabili con i test standard, e adesso risulta negativo anche a quelli ultrasensibili. Va rammentato che i trapianti di cellule staminali sono troppo rischiosi per chi non ne ha bisogno per curare un cancro potenzialmente letale, senza contare che si tratta di interventi complessi e costosi. Ciò nondimeno, ogni nuovo caso di remissione spontanea fornisce ulteriori indizi ai ricercatori impegnati nella ricerca di una cura per l'HIV. | ||
La pitavastatina riduce il rischio di eventi cardiovascolari nelle persone con HIV | ||
Secondo uno studio presentato in settimana, una statina di uso molto comune sarebbe in grado di ridurre il rischio di infarto, ictus e altri eventi cardiovascolari quando viene somministrata a persone con HIV a cui normalmente non verrebbe prescritta. Questo sembra indicare che l'impiego di statine potrebbe prevenire un evento cardiovascolare importante, o il relativo decesso del paziente, su cinque. REPRIEVE è un ampio studio di fase III che ad aprile era stato interrotto prima del previsto dopo che dai risultati ad interim era già emerso che la pitavastatina riduceva del 35% il rischio di eventi cardiovascolari importanti. Il prof. Steven Grinspoon della Harvard Medical School e del Massachusetts General Hospital ne ha presentato a IAS 2023 i risultati dettagliati, contemporaneamente pubblicati sul New England Journal of Medicine. Una mole crescente di studi dimostra che le persone con infezione da HIV sono maggiormente soggette a malattie cardiovascolari, il che può essere imputato agli effetti avversi di taluni antiretrovirali, ai tassi più elevati di fattori di rischio tradizionali come il fumo, o ancora al fatto che in taluni casi l'infiammazione cronica persiste nonostante una terapia antiretrovirale efficace. Le malattie cardiovascolari sono associate ad alti livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue. Le statine riducono le lipoproteine a bassa densità (LDL) – il "colesterolo cattivo" – e sono note anche per la loro capacità di ridurre le infiammazioni. Che siano in grado di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e di morte nella popolazione generale è già dimostrato, ma i loro benefici per le persone con HIV non erano ancora stati chiariti. Lo studio REPRIEVE ha iniziato l'arruolamento nel 2015. Si tratta del più grande studio randomizzato sull'HIV condotto finora, con più di 100 siti in 12 paesi di America settentrionale e meridionale, Europa, Africa e Asia. Complessivamente ha coinvolto 7769 persone con HIV di età compresa tra 40 e 75 anni, con età mediana di 50 anni, e per quasi un terzo di sesso femminile; il 41% dei pazienti arruolati erano neri, il 35% bianchi e il 15% asiatici. I partecipanti assumevano tutti una terapia antiretrovirale e la maggior parte di loro (88%) aveva carica virale non rilevabile; sempre la maggior parte assumeva un regime contenente un inibitore non nucleotidico della trascrittasi inversa (47%) o un inibitore dell'integrasi (26%). Nessuno aveva malattie cardiovascolari pregresse, né aveva mai precedentemente assunto statine; tutti sono stati valutati a rischio cardiovascolare da basso a moderato. I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere pitavastatina per via orale (4 mg) oppure un placebo, una volta al giorno. L'aderenza terapeutica nel corso di cinque anni di follow-up è risultata molto buona. I livelli di colesterolo LDL, che al basale erano simili, sono diminuiti del 30% nel braccio della pitavastatina, mentre sono rimasti invariati nel braccio del placebo. I tassi di eventi cardiovascolari importanti (come infarto o ictus) sono stati rispettivamente di 4,8 e 7,3 per 1000 anni-persona nel braccio di intervento (quello con la pitavastatina) e di controllo (con il placebo). Nel braccio della pitavastatina il tasso di tali eventi è risultato inferiore del 35%, il che rappresenta una riduzione anche maggiore rispetto a quella osservata negli studi sulla popolazione generale. La pitavastatina è risultata generalmente sicura e ben tollerata. Gli effetti collaterali riscontrati sono simili a quelli osservati negli studi sulla popolazione generale e non sono emersi imprevisti problemi di sicurezza. "Lo studio sembra indicare che le statine possono rappresentare un intervento facile da attuare e conveniente per migliorare la salute cardiovascolare e la qualità della vita delle persone con infezione da HIV", ha commentato il dott. Gary Gibbons, direttore del National Heart, Lung and Blood Institute degli Stati Uniti. "Conducendo altre ricerche si potrebbero migliorare ulteriormente questi risultati, e al contempo fornire indicazioni utili a tradurre rapidamente i risultati della ricerca nella pratica clinica". | ||
Semaforo giallo: la posizione dell'OMS riguardo ai casi di carica virale "soppressa ma rilevabile" | ||
La dott.ssa Lara Vojnov, consulente per la diagnostica del Programma globale dell'OMS per l'HIV, l'epatite e le infezioni sessualmente trasmissibili, ha presentato un nuovo documento programmatico dell'Organizzazione dal titolo The role of HIV viral suppression in improving individual health and reducing transmission ('Il ruolo della soppressione virale dell'HIV per migliorare la salute individuale e ridurre la trasmissione'). Nel documento viene fatta la distinzione tra tre categorie di risultati del test della carica virale: "non soppressa" (oltre 1000); "non rilevabile", che dipende dalla sensibilità del singolo test e può indicare un qualsiasi valore da 0 a 200; e una categoria intermedia, "soppressa", in cui il test rileva la presenza di HIV ma a livelli così bassi che non riesce a quantificarli (sotto 1000). In passato, i test della carica virale erano considerati troppo complessi e costosi per i contesti a basso reddito: eventuali modifiche al regime terapeutico venivano dunque decise in base alla comparsa di sintomi, un sistema considerato più conveniente in termini di costi. Aspettando di apportare modifiche al regime terapeutico finché le persone non lamentano sintomi, tuttavia, si aprono le porte allo sviluppo di farmacoresistenze, il che limita fortemente le opzioni per il trattamento di seconda linea con alti costi in termini di vite umane. C'è dunque urgente bisogno di rendere il test della carica virale parte integrante del percorso di trattamento e cura dell'HIV in tutti i contesti. L'uso di campioni di sangue secco al posto del plasma, per esempio, consente di superare molte delle difficoltà logistiche che hanno ostacolato la diffusione dei test della carica virale nei Paesi a basso e medio reddito. Tuttavia, con questi test, la soglia clinica a cui una carica virale è sicuramente "non soppressa" si attesta intorno alle 1000 copie/ml. Questo perché i campioni utilizzati sono più piccoli e ciò conduce a un esito positivo, con livelli inferiori a 1000 ma non esattamente quantificabili: in altre parole, il test non restituisce un valore numerico preciso. Non capita spesso che un paziente abbia una carica virale che si collochi in questo intervallo. Una carica virale nell'ordine delle centinaia, infatti, è spesso transitoria, ossia in "discesa" (nel caso di pazienti che hanno iniziato per la prima volta il trattamento e la loro carica virale sta diminuendo) o in "salita" (nel caso di fallimento terapeutico o di problemi di aderenza che potrebbero portare al fallimento). La nuova categoria "soppressa" può dunque essere l'avvisaglia di un problema futuro, proprio come un semaforo giallo. Per chi ha un esito di carica virale "soppressa ma rilevabile", l'OMS raccomanda un counseling intensificato sull'aderenza terapeutica e la ripetizione del test della carica virale dopo tre mesi. Se il risultato è ancora "soppressa ma rilevabile", sarà opportuno valutare di apportare modifiche al regime terapeutico, in quanto il dato potrebbe indicare lo sviluppo di una resistenza di basso livello oppure un imminente fallimento del trattamento. In termini di trasmissione, Vojnov ha sottolineato che rimane invariato il messaggio sull'equazione “irrilevabile = intrasmissibile” (‘undetectable equals untransmittable’, U=U), vale a dire che "le persone HIV positive con carica virale non rilevabile hanno rischio zero di trasmettere l'infezione ai partner sessuali". Per quantificare il rischio di trasmissione per la categoria "soppressa" (inferiore a 1000, ma è possibile che sia superiore a 200), Vojnov e colleghi hanno condotto una revisione degli studi che misuravano la carica virale e la correlavano agli eventi di trasmissione. La revisione, pubblicata la scorsa settimana su Lancet, ha individuato due soli eventi di trasmissione in cui all'ultima registrazione la carica virale era inferiore a 1000 (617 in un caso e 872 nell'altro), concludendo pertanto che "le persone HIV-positive con carica virale soppressa hanno un rischio quasi nullo o trascurabile di trasmissione ai partner sessuali". | ||
Esposizione alla ART nel grembo materno e controllo spontaneo dell'HIV post-trattamento in cinque neonati maschi sudafricani | ||
In uno studio condotto in Sudafrica e presentato a IAS 2023 sono stati descritti i casi di cinque bambini maschi nati con infezione da HIV a cui è stata sospesa la somministrazione della terapia antiretrovirale (ART) e che in seguito continuavano persistentemente ad avere carica virale non rilevabile anche senza l'ausilio dei farmaci. Questi dati sembrano indicare che gli antiretrovirali possono essere efficaci per il trattamento dell'HIV già nel grembo materno e al contempo evidenziano una potenziale differenza legata al sesso nella capacità di controllare spontaneamente la riattivazione della replicazione virale dopo aver interrotto la terapia. Nell'ultimo decennio sono stati segnalati diversi casi di bambini in grado di mantenere una carica virale non rilevabile per mesi o addirittura anni, spesso dopo solo un breve ciclo di terapia antiretrovirale: sono i cosiddetti post-treatment controllers. La dott.ssa Gabriela Cromhout dell'Università di KwaZulu-Natal ha ipotizzato che nei bambini la capacità di tenere spontaneamente a bada il virus dopo aver ricevuto un primo trattamento potrebbe essere più comune di quanto si pensasse fino a quel momento. Nel 2015, quindi, ha avviato insieme ai suoi colleghi uno studio di coorte longitudinale, che attualmente coinvolge 281 madri con figli nati con infezione da HIV. I bambini sono monitorati fin dalla nascita. Molte delle madri hanno ricevuto la diagnosi di HIV e hanno iniziato la ART solo a gravidanza già avanzata, mentre altre hanno incontrato difficoltà ad aderire correttamente alla terapia. Ciò nonostante, il 92% dei neonati prima della nascita ha ricevuto una qualche quantità di antiretrovirali dalla madre attraverso il trasferimento placentare. Nei bambini nati con HIV in Sud Africa, la carica virale è oggi significativamente inferiore rispetto all'era pre-ART, ancora di più dopo il passaggio a regimi basati su dolutegravir, un farmaco particolarmente potente. In questa coorte, la carica virale alla nascita, in media, era di 6950 nei neonati le cui madri avevano assunto lopinavir potenziato, e solo di 1700 se era stato impiegato il dolutegravir; se il neonato era di sesso maschile, poi, si scendeva sotto quota 1000. Tutti i bambini hanno iniziato ad assumere l'ART, ma per molti l'aderenza al trattamento è stata irregolare. Tre anni dopo la nascita, il 37% delle madri e dei bambini aveva abbandonato lo studio, e il 23% presentava una carica virale persistentemente rilevabile. Di contro, il 40% aveva soppresso la replicazione virale, con un 19% che presentava una carica virale persistentemente non rilevabile (inferiore a 20) senza improvvisi picchi viremici (blips). Lo studio ha evidenziato una differenza legata al sesso del neonato nella capacità di tenere spontaneamente a bada il virus post-trattamento. Cinque bambini hanno mantenuto la carica virale sotto le 20 copie nonostante non assumessero antiretrovirali, o molto pochi, da massimo due mesi dopo la nascita. E tutti e cinque erano maschi, anche se il 60% dei neonati coinvolti nello studio erano di sesso femminile. Il bambino che è riuscito a mantenere la carica virale non rilevabile per più tempo ha interrotto l'assunzione della ART all'età di 40 mesi (3 anni e 4 mesi), e ha ora compiuto cinque anni. Gli altri quattro hanno ricominciato a prendere i farmaci, ma tre di loro sono adesso arruolati in uno studio analitico sull'interruzione del trattamento in cui sospenderanno l'assunzione dell'ART sotto attento controllo medico per un periodo predefinito. Sono emerse differenze in base al sesso anche nei ceppi virali acquisiti. Nelle femmine, l'HIV tendeva ad essere resistente o comunque meno sensibile agli interferoni di tipo 1, il che significa che l'efficacia contro il virus di queste barriere immunitarie innate non sarebbe stata ottimale. Nei maschi, invece, l'HIV tendeva ad essere sensibile agli interferoni di tipo 1, quindi le loro difese immunitarie avrebbero funzionato meglio. Se la risposta all'interferone di tipo 1 influenza il ceppo virale acquisito dai maschi, allora le terapie che rafforzano ulteriormente questa risposta potrebbero restringere la gamma di virus che potrebbero essere trasmessi e avere un effetto preventivo, almeno nei bambini. | ||
L'analisi scientifica di Clinical Care OptionsPer approfondire l’analisi scientifica dei dati presentati a IAS 2023, Clinical Care Options offre dei brevi webinar post-conferenza, tenuti da esperti, sulle principali strategie di prevenzione dell'HIV, sugli studi in materia di trattamento dell'HIV, sui regimi terapeutici nuovi e sperimentali. È possibile partecipare ai webinar on demand, scaricare le presentazioni PowerPoint e acquisire una prospettiva globale sull'HIV grazie agli approfondimenti di ClinicalThought. | ||
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NAM's news coverage of IAS 2023 has been made possible thanks to support from Gilead Sciences Europe Ltd and ViiV Healthcare. |
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Traduzione di LILA Onlus – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS | ||
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