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L’mpox (vaiolo delle scimmie) può assumere forme molto gravi nelle persone con infezione da HIV incontrollata | ||
Sono i risultati dell’analisi di una case series globale – una raccolta di casi clinici con elementi in comune – presentata alla 30° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2023) in corso a Seattle e descritta contemporaneamente su Lancet. I primi casi del più recente focolaio di mpox sono stati segnalati nel maggio 2022. Da allora, sono stati riportati più di 86.000 contagi in 110 paesi, con 96 decessi. La maggior parte dei casi hanno interessato maschi omo- e bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM). Dopo il picco raggiunto nella seconda metà dell’estate scorsa, i casi di mpox sono drasticamente diminuiti; tuttavia, il loro numero effettivo potrebbe essere sottostimato, i tassi di vaccinazione contro l’mpox sono bassi e in molti paesi restano indisponibili sia i vaccini che il trattamento antivirale per l’mpox. Questa nuova case series ha raccolto i dati di 382 persone HIV-positive con mpox in 19 paesi. Dei casi considerati, circa un quarto proveniva dall'Europa, quasi tre quarti dalle Americhe e meno del 2% dall'Africa. Sebbene circa il 90% degli interessati fossero persone con infezione da HIV già diagnosticata, solo il 60% era in trattamento antiretrovirale e solo la metà aveva abbattuto la carica virale a livelli non rilevabili. Solo il 7%, infine, era vaccinato contro l’mpox. La maggior parte dei pazienti considerati ha sviluppato un'eruzione cutanea, e chi aveva una bassa conta dei CD4 presentava lesioni molto più gravi in termini di quantità, dimensioni ed estensione. Tra le persone HIV-positive con conta inferiore a 350 si sono verificati quasi 400 casi di mpox. Molti presentavano gravi lesioni necrotizzanti che evolvevano in necrosi tissutale, e si sono osservati casi di interessamento polmonare e sepsi. Il numero complessivo di pazienti deceduti è 27 (7%); la mortalità, però, è risultata fortemente concentrata tra gli individui con un sistema immunitario maggiormente compromesso. Gran parte dei decessi si sono verificati in pazienti interessati da complicanze multiple e gravi dell’mpox, e la cui conta mediana dei CD4 non superava 35. Di contro non si sono registrati decessi tra coloro che avevano l’infezione da HIV sotto saldo controllo, né tra coloro che avevano ricevuto il vaccino contro l’mpox: questo sembra indicare che iniziare e continuare ad assumere la terapia antiretrovirale contribuisca a prevenire gli esiti gravi. La prof.ssa Chloe Orkin della Queen Mary University di Londra, presentando questi risultati, ha tuttavia raccomandato ai professionisti che hanno in cura pazienti con gravi forme di mpox di prestare particolare attenzione alla sindrome infiammatoria da immunoricostituzione (IRIS), un aggravamento dei sintomi che può verificarsi quando si inizia la terapia antiretrovirale con una conta dei CD4 molto bassa. Su 85 pazienti che avevano iniziato per la prima volta ad assumere la terapia o l’avevano ripresa dopo un’interruzione, è stato rilevato il 25% di casi di sospetta IRIS. Secondo Orkin e colleghi, nelle persone con infezione da HIV incontrollata l’mpox agisce come un'infezione opportunistica e le forme con gravi lesioni necrotizzanti sono patologie AIDS-definenti. Gli studiosi hanno pertanto rivolto un appello all'Organizzazione Mondiale della Sanità e ai Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) degli Stati Uniti perché l’mpox venga aggiunto alle altre 14 patologie opportunistiche già incluse nelle classificazioni internazionali. La dott.ssa Meg Doherty, responsabile del programma globale dell'OMS per l'HIV, l'epatite e le infezioni sessualmente trasmissibili, ha fatto sapere che l'organizzazione esaminerà i dati insieme a esperti internazionali e prenderà in considerazione le raccomandazioni dei ricercatori. | ||
L’anello vaginale con dapivirina è sicuro anche al terzo trimestre di gravidanza e in allattamento | ||
Nuovi studi presentati questa settimana a CROI 2023 attestano la sicurezza dell’impiego nel terzo trimestre di gravidanza e in allattamento dell’anello vaginale in silicone che rilascia l’antivirale dapivirina, usato per la profilassi pre-esposizione (PrEP) dell’HIV. Sempre da questi studi giunge ulteriore conferma della sicurezza dell’assunzione quotidiana della PrEP per via orale anche durante la gravidanza. I dati degli studi di fase III Ring Study e ASPIRE avevano già mostrato che questo dispositivo era in grado di ridurre il rischio di infezione da HIV di circa il 30%. Da analisi successive è poi emerso che l'anello, da sostituirsi una volta al mese, nelle donne che lo usavano correttamente e regolarmente poteva ridurre il rischio di infezione fino al 75%. Alle partecipanti rimaste incinte nel periodo dello studio l’anello è stato prontamente rimosso per timore che insorgessero effetti collaterali, ma i dati relativi a queste 240 donne non mostrano alcun aumento di rischio di complicanze gravidiche e perinatali a causa dell’impiego del dispositivo al momento del concepimento. Questi primi studi condotti su donne in fase avanzata di gravidanza e durante il periodo di allattamento ora confermano che l’impiego dell’anello vaginale a rilascio di dapivirina è sicuro anche al terzo trimestre di gravidanza o nelle donne che allattano, e non comporta rischi per la salute dei bambini. Per lo studio DELIVER sono state arruolate donne in stato di gravidanza di età compresa tra i 18 e i 40 anni in Uganda, Malawi, Zimbabwe e Sudafrica. Le partecipanti sono state randomizzate per usare l'anello vaginale o assumere la PrEP orale quotidiana. Lo studio ha adottato un approccio in tre fasi, arruolando prima 150 donne in stadio avanzato di gravidanza e perciò a minor rischio di sviluppare reazioni indesiderate ai farmaci: quelle alla 36° settimana. Dopo che un gruppo di revisori indipendenti non ha riscontrato problemi di sicurezza per questo gruppo, è stata avviata una seconda coorte di 157 partecipanti tra la 30° e la 35° settimana, e successivamente altre 250 donne tra la 12° e la 29°. Sia l'anello che la PrEP orale quotidiana si sono dimostrati sicuri. Uno studio complementare, denominato B-PROTECTED, ha invece esaminato i livelli di farmaco nel sangue e nel latte materno, accertando che l’impiego dell’anello e l’assunzione della PrEP orale sono sicuri anche durante l’allattamento al seno. Gli enti regolatori di Sudafrica, Uganda e Zimbabwe hanno già dato il via libera all'impiego dell’anello: questi e altri paesi africani prevedono di includere il dispositivo negli studi pilota di implementazione, insieme alla PrEP orale e iniettabile. Gli autori di questi studi ritengono che i dati da loro raccolti dovrebbero essere di incoraggiamento per i responsabili degli enti regolatori e i decisori politici, affinché decidano di ampliare l’offerta dell’anello vaginale anche alle donne in gravidanza e in allattamento. | ||
Gli inibitori dell’integrasi non aumentano il rischio cardiovascolare, emerge da uno studio svizzero | ||
Se gli inibitori dell'integrasi incidano o meno sul rischio cardiovascolare è una questione su cui c’è dell’incertezza. Sebbene gli inibitori dell'integrasi tendano a causare meno aumenti del colesterolo, la loro assunzione è associata a un aumento di peso dopo l'inizio del trattamento, il che potrebbe aumentare il rischio di malattie cardiovascolari. Gli studi fin qui condotti in merito hanno prodotto risultati contraddittori. Per questo nuovo studio, i ricercatori hanno valutato il rischio di un evento cardiovascolare grave (ictus, infarto o un problema che richiedeva un intervento invasivo come un’angioplastica o l’impianto di stent) in una coorte di pazienti con HIV che hanno iniziato il trattamento in Svizzera dopo il maggio 2008. Durante il periodo preso in considerazione dallo studio hanno iniziato ad assumere il trattamento 5362 persone, di cui 1837 con un regime basato sull'inibitore dell'integrasi e 3525 con un altro tipo di regime. Oltre la metà di coloro che assumeva un inibitore dell'integrasi ha ricevuto il dolutegravir (53%), gli altri hanno invece ricevuto bictegravir (18%), elvitegravir (16%) oppure raltegravir (13%). Circa una persona su quattro che iniziava un regime con inibitori dell'integrasi ha ricevuto anche l’abacavir, mentre per coloro che assumevano altri regimi il rapporto era di uno su otto. Il 40% dei pazienti trattati con un inibitore dell’integrasi assumeva anche tenofovir alafenamide (TAF), contro solo dall'1% di quelli trattati con altri regimi. I partecipanti trattati con un inibitore dell’integrasi avevano numerosi aspetti in comune con quelli che invece ricevevano un regime a base di un’altra classe di farmaci: l’età media all’inizio del trattamento era di 39 anni, circa la metà dei partecipanti fumava, il 10% aveva la pressione alta e l'1,5% aveva avuto pregressi problemi cardiovascolari. Tra chi assumeva un regime senza inibitori dell’integrasi c’era una percentuale più alta di donne (24%, contro l’11% tra i trattati con inibitori dell'integrasi) e di persone di provenienza africana (18% contro 11%). Durante un periodo mediano di follow-up di 4,9 anni, si sono verificati 116 eventi cardiovascolari. Dopo l'aggiustamento per fattori di rischio demografici, HIV-correlati e cardiovascolari, gli autori non hanno individuato differenze significative nel rischio di eventi cardiovascolari in un qualsiasi momento del follow-up. Presentando questi risultati, il dott. Surial ha auspicato che l’analisi venga replicata in coorti internazionali più ampie. Lo studioso ha attirato l'attenzione sui potenziali bias che possono influenzare gli studi sul rischio cardiovascolare e sul trattamento con inibitori dell'integrasi, per esempio lo switch terapeutico di soggetti con comorbilità agli inibitori dell'integrasi per ridurre il rischio di interazioni farmacologiche. | ||
È più efficiente prescrivere la doxyPEP dopo una diagnosi di IST che a interi gruppi di popolazione | ||
"Facendo particolare riferimento alla nostra coorte, stimiamo che prescrivendo la doxyPEP per 12 mesi dopo una diagnosi di IST sarebbe stato possibile evitare il 42% di tutti gli eventi di infezione a trasmissione sessuale", ha detto il dott. Michael Traeger della Harvard Medical School. Tre studi clinici hanno dimostrato che l’assunzione dell'antibiotico doxiciclina a uomini omo- e bisessuali e donne transgender entro le 72 ore successive a un rapporto non protetto da preservativo riduce le IST. La doxyPEP ha dimostrato un'efficacia relativamente elevata nel prevenire la clamidia e la sifilide; almeno in questi gruppi, invece, è risultata meno efficace nel prevenire la gonorrea. Gli studi precedenti avevano dimostrato una riduzione delle IST a livello individuale, mentre questa analisi mirava a esplorare se e quanto la diffusione di queste infezioni si sarebbe ridotta a livello di comunità in base alle diverse strategie di prescrizione della doxyPEP. I ricercatori hanno esaminato i dati dei test IST di oltre 10.500 persone che tra il 2015 e il 2020 si erano rivolte a una grande struttura sanitaria di Boston specializzata nell'assistenza alle persone LGBTQ+ e hanno prodotto delle stime di come l’adozione di un’ipotetica strategia di prescrizione anziché un’altra avrebbe influito sull’incidenza delle IST. Se la doxyPEP fosse stata prescritta a tutti i componenti del gruppo di studio dopo un rapporto non protetto da preservativo si sarebbe evitato il 70% degli eventi di trasmissione, ma questo comportava che tutti assumessero il farmaco, il che avrebbe potenzialmente aumentato il rischio che si sviluppassero farmacoresistenze. Le strategie basate su gruppi di popolazione sono risultate meno efficienti di quelle basate su una diagnosi di IST, dacché era necessario prevedere la somministrazione del farmaco a una percentuale maggiore di persone. Ad esempio, prescrivendo la doxyPEP a tutte le persone con infezione da HIV e a tutte quelle che assumono la PrEP dell'HIV si sarebbe potenzialmente prevenuto il 60% delle IST in un anno, ma questo comportava che il 68% dei membri della coorte clinica assumesse l'antibiotico. Concentrandosi invece sulle persone che hanno già ricevuto una diagnosi di IST, il numero di persone a cui far assumere la doxyPEP sarebbe inferiore; somministrandola dopo ogni diagnosi di IST, sarebbe stato possibile evitare il 42% delle nuove infezioni. E prescrivendola a tutti coloro che avevano acquisito due diverse IST nei 12 mesi precedenti si sarebbe evitato il 23% delle infezioni, somministrandola però soltanto al 14% dei componenti del gruppo. Traeger ha fatto presente che l'efficacia di queste strategie può differire nel mondo reale e in popolazioni più grandi, ma ritiene comunque che questi risultati possano essere utili per fare un bilancio tra benefici e potenziali danni quando si stabiliscono le linee guida per la prescrizione clinica della doxyPEP. | ||
Ora che lo studio Mosaico ha chiuso, tutta l’attenzione è sugli anticorpi neutralizzanti | ||
Mosaico era uno studio clinico in cui è stato somministrato un vaccino anti-HIV oppure un placebo a 3900 tra uomini omo- e bisessuali cisgender e transgender e donne transgender in Europa e nelle Americhe: è stato chiuso a gennaio dopo che il vaccino sotto esame non si è dimostrato sufficientemente efficace nel prevenire l’infezione da HIV. "Sfortunatamente i risultati dello studio non hanno mostrato l’efficacia sperata, anzi, i tassi di infezione sono risultati in realtà piuttosto alti", ha detto la prof.ssa Buchbinder durante una conferenza stampa. L'incidenza complessiva dell'HIV, ha riferito la studiosa, era di 4,1 per 100 anni-persona sia nel braccio di intervento (quello in cui veniva somministrato il vaccino) che in quello di controllo con il placebo. Quello testato da Mosaico era un vaccino mirato a stimolare la produzione di anticorpi non neutralizzanti. A differenza degli anticorpi neutralizzanti, che impediscono direttamente a un agente patogeno di diffondersi nell’organismo, gli anticorpi non neutralizzanti innescano risposte immunitarie che combattono le infezioni in maniera indiretta. Il dott. Corey ha detto che, in futuro, la ricerca si concentrerà su approcci basati su vaccini capaci di produrre anticorpi neutralizzanti: ci sono già 7/8 candidati vaccini da valutare nel giro dei prossimi due anni, nella speranza che siano in grado di stimolare la produzione di livelli di anticorpi neutralizzanti sufficienti a proteggere dall'infezione da HIV. | ||
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Traduzione di LILA Onlus – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS | ||
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