In un ampio studio in Africa, la PrEP previene tre quarti delle infezioni da HIV
Un ampio studio sull’offerta della PrEP (profilassi pre-esposizione, ossia l’assunzione regolare di farmaci a scopo di prevenzione) in 16 comunità in Kenya e Uganda ha evidenziato una diminuzione del 74% negli eventi di infezione da HIV nei partecipanti appartenenti a gruppi ad alto rischio che iniziavano il trattamento. Si tratta della più cospicua riduzione mai riscontrata da un programma di offerta della PrEP in Africa sub-sahariana.
I risultati dello studio sono stati presentati alla 23° Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2020: Virtual), in corso questa settimana in modalità virtuale.
Lo studio SEARCH (Sustainable East Africa Research in Community Health) è operativo in 32 comunità in Kenya e Uganda fin dal 2013. Inizialmente era unicamente mirato all’offerta universale di test e trattamento, ma dal giugno 2016 all’interno delle 16 comunità di intervento si è iniziato a offrire la PrEP a individui ad alto rischio di infezione da HIV, per esempio persone che lavorano nei trasporti o nella pesca, o che comunque si ritengono a rischio di contrarre l’infezione.
Dei 15.632 individui identificati come ad alto rischio, 5447 (il 35%) hanno iniziato la PrEP; l’incidenza HIV è risultata pari allo 0,35% all’anno. In mancanza di un gruppo di controllo trattato con placebo, i dati sono stati messi a confronto con quelli di individui che avevano partecipato a SEARCH nel corso dei due anni prima che si iniziassero a erogare i farmaci profilattici. Dai dati storici è emerso che in precedenza l’incidenza era dello 0,92%, il che significa che il tasso di infezione dal momento in cui era iniziata l’erogazione della PrEP era calato del 74%. La diminuzione più marcata si è osservata tra le donne (-76%); anche tra gli uomini si è registrato un calo dell’incidenza, ma solo del 40%, dunque un dato statisticamente non significativo. Sebbene l’83% dei partecipanti che iniziavano il trattamento a un certo punto lo interrompevano, il 50% di chi aveva smesso ha successivamente ricominciato ad assumere i farmaci.
La combinazione islatravir più doravirina è efficace nel mantenere la soppressione virale
Lo studio, randomizzato e a doppio cieco, ha coinvolto 121 individui che iniziavano per la prima volta il trattamento antiretrovirale. I partecipanti erano per oltre il 90% di sesso maschile e per i tre quarti bianchi, con età mediana di 28 anni; circa un quarto di loro al baseline presentava valori di carica virale superiori alle 100.000 copie/ml.
Nella prima parte dello studio, i partecipanti hanno assunto per 24 settimane un regime a base di islatravir in uno di tre dosaggi (0,25mg, 0,75mg o 2,25mg) più doravirina (100mg) e lamivudina (300mg), oppure un regime a base dei tre farmaci doravirina, tenofovir disoproxil fumarato (TDF) e lamivudina – quelli che compongono il regime monocompressa Delstrigo. Nella seconda parte, gli appartenenti al braccio dell’islatravir che riuscivano ad abbattere la carica virale sotto la soglia di rilevabilità (al di sotto delle 50 copie/ml) smettevano di assumere la lamivudina e proseguivano con solo gli altri due farmaci per altre 24 settimane.
I risultati dello studio sull’efficacia del regime sono stati presentati l’estate scorsa alla Conferenza Internazionale IAS 2019: la combinazione dei due farmaci nel dosaggio ottimale (quello di 0,75mg) si era mostrata efficace in termini di soppressione della carica virale almeno quanto il regime a tre farmaci, con l’abbattimento raggiunto alla 48° settimana dal 90% dei partecipanti del braccio di sperimentazione contro l’84% dei partecipanti di quello di controllo.
La prof.ssa Chloe Orkin ha quest’anno presentato gli ultimi risultati dello studio, quelli relativi ai casi di fallimento virologico (mancata soppressione o rebound della carica virale). È stato osservato un rebound virale in due (7%) dei partecipanti appartenenti al gruppo trattato con islatravir al dosaggio di 0,25mg, in altri due (7%) di quelli trattati con islatravir al dosaggio di 0,75mg e in uno (3%) del gruppo del Delstrigo. Nel gruppo dei partecipanti che assumevano islatravir al dosaggio di 2,25mg, un paziente (3%) non ha invece risposto al trattamento. In tutti i casi, la carica virale si è mantenuta al di sotto delle 100 copie/ml.
Gli autori hanno dunque concluso che i tassi di fallimento virologico erano bassi, e i partecipanti interessati mantenevano comunque livelli di carica virale inferiori alla soglia clinicamente significativa di 200 copie/ml.
Il dott. Edwin DeJesus ha invece presentato i risultati dello stesso studio in termini di profilo di sicurezza. Il trattamento si è mostrato generalmente sicuro e ben tollerato; gli effetti collaterali si sono manifestati con frequenza simile sia nei bracci trattati con islatravir, a tutti e tre i dosaggi, sia in quello del Delstrigo.
Nuovi studi sul rapporto tra trattamento HIV e aumento di peso
Alla Conferenza sono stati presentati svariati studi dedicati alla questione dell’aumento di peso nei pazienti che assumono il trattamento antiretrovirale.
L’aumento di peso a seguito dell’inizio del trattamento è stato osservato in numerose coorti e in molte sperimentazioni cliniche. Sebbene le cause non siano ancora state definitivamente chiarite, sono stati avanzate diverse ipotesi, e sono state individuate associazioni tra aumento di peso e alcune determinate sostanze farmacologiche.
La popolazione presa in considerazione per lo studio consisteva in 8256 persone con HIV e un gruppo di controllo di 129.966 individui HIV-negativi inclusi nel database di Kaiser Permanente negli stati della California, Virginia e Maryland e nella città di Washington. La popolazione HIV-positiva aveva un’età mediana di 41 anni; i partecipanti erano per l’88% di sesso maschile, per il 36% bianchi, per il 26% neri, per il 26% ispanici e per il 6% asiatici e nativi delle isole del Pacifico. All’inizio dello studio, i partecipanti HIV-negativi avevano in media una massa corporea inferiore rispetto a quelli HIV-negativi.
Le persone con HIV hanno acquistato peso tre volte più velocemente rispetto al gruppo di controllo degli HIV-negativi, e dopo 12 anni di follow-up la loro massa corporea era simile. Gli autori dello studio hanno sottolineato che l’aumento di peso è un fattore che aggrava il rischio di co-morbidità, già più elevato per le persone con HIV, soprattutto per quanto riguarda le patologie cardiovascolari.
In un altro studio presentato alla Conferenza, i ricercatori hanno riscontrato un rapido aumento di peso negli individui che passavano da un regime con tenofovir disoproxil fumarato (TDF) a uno con tenofovir alafenamide (TAF), e questo a prescindere che l’altro farmaco facente parte del regime fosse un inibitore dell’integrasi o un farmaco di qualsiasi altra classe.
Lo studio si è basato su dati di OPERA, un’ampia coorte che raccoglie dati provenienti da centri clinici e medici che hanno in carico circa l’8% di tutte le persone con diagnosi di HIV negli Stati Uniti. Gli autori hanno individuato 6919 pazienti passati da un regime con TDF a uno con TAF e ai quali era stato misurato il peso corporeo prima e dopo lo switch terapeutico. L’andamento della variazione ponderale è risultato simile per tutti i regimi: nei primi mesi dopo lo switch al TAF si verificava un rapido aumento di peso, che poi rallentava o si stabilizzava.
Il trattamento antiretrovirale a base di dolutegravir è raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a tutti gli adulti con HIV e anche il PEPFAR (il piano di emergenza sull'AIDS della presidenza statunitense) sta offrendo un regime contenente tenofovir, lamivudina e dolutegravir attraverso i programmi che finanzia.
Già in passato erano stati osservati considerevoli aumenti di peso in pazienti trattati con dolutegravir in due ampi studi clinici in Africa. Per tenere monitorato l’impatto che avrebbe l’introduzione del dolutegravir nella pratica clinica di routine, i ricercatori hanno arruolato partecipanti HIV-positivi in 12 siti in Kenya, Nigeria, Tanzania e Uganda dove viene erogato il trattamento antiretrovirale con il sostegno del PEPFAR.
Lo studio ha confrontato i dati relativi a 742 pazienti che hanno iniziato il trattamento con un regime a base di tenofovir, lamivudina e dolutegravir con quelli di altri 1212 che non avevano ancora iniziato il trattamento o che assumevano un regime privo di dolutegravir. Dopo gli aggiustamenti per sito di studio, sesso, età e presenza di depressione, è risultato che chi assumeva dolutegravir aveva l’85% di probabilità in più di avere problemi di sovrappeso/obesità rispetto a chi invece veniva trattato con un regime che non lo conteneva.
Almeno 28.000 donne negli Stati Uniti hanno iniziato la PrEP
Da uno studio che ha esaminato le prescrizioni per il Truvada (tenofovir disoproxil fumarato/emtricitabina) negli Stati Uniti è emerso che il suo uso da parte delle donne come farmaco per la PrEP è aumentato di 12 volte tra il luglio del 2012, quando ne è stato per la prima volta approvato l’uso dalla Food and Drug Administration (l’ente statunitense preposto al controllo dei farmaci) e la fine del 2017. Segnatamente, si è passati dalle 2770 prescrizioni individuali (sia per iniziare che riprendere l’assunzione del farmaco) del 2012 alle 27.556 del 2017.
I dati sono stati raccolti presso studi medici, farmacie, ospedali e altre strutture attive sul territorio. Gli autori dello studio riconoscono che con la metodologia adottata è possibile siano sfuggite loro molte prescrizioni, ma calcolano che i dati coprano circa l’80% dei casi di impiego della PrEP per qualsiasi dei cinque anni considerati.
L’uso della PrEP è risultato in assoluto più elevato tra le donne di età compresa tra i 25-35 anni, con marcate differenze sul piano geografico: negli Stati del nord-est le donne che ne facevano uso erano 329 su 100.000, contro solo 140 su 100.000 in quelli del sud, dove l’incidenza HIV è più elevata.
Londra, secondo uno studio le persone HIV+ non sarebbero a rischio più elevato per forme gravi di COVID-19
I medici del Guy’s and St Thomas’ Hospital hanno condotto uno studio retrospettivo confrontando 17 pazienti con HIV ricoverati a marzo o aprile e risultati positivi al test per SARS-CoV-2 (il coronavirus responsabile della sindrome) con 50 pazienti HIV-negativi, in un rapporto di tre a uno. Outcome primario dello studio era il tempo intercorso tra il ricovero e il miglioramento delle condizioni di salute, definito come un miglioramento di due punti su una scala clinica di sette punti totali, oppure come le dimissioni dall’ospedale.
Dopo 28 giorni di follow-up, era stato dimesso dall’ospedale l’82% dei pazienti HIV-positivi contro il 74% di quelli HIV-negativi, una differenza non significativa. Tra i due gruppi non è stata evidenziata alcuna differenza degna di nota neppure nella durata del ricovero, la necessità di ricorrere ai ventilatori o frequenza di insorgenza di complicanze legate alla COVID-19, né nel tasso di mortalità o nella frequenza dei ricoveri di durata superiore ai 28 giorni.
Dopo aver vagliato i dati alla luce l’età e altri fattori di confondimento, è emerso che i pazienti con HIV in effetti miglioravano perfino più rapidamente e venivano dimessi prima di quelli HIV-negativi con cui erano stati abbinati per il confronto.
Un gruppo di ricercatori del King’s College Hospital di Londra, invece, ha confermato dati già precedentemente pubblicati che mostrano come le persone HIV-positive di etnia nera presentino un rischio molto più elevato di necessitare di ricovero ospedaliero rispetto a persone sempre HIV-positive ma di altre etnie – con un aggiornamento sul numero di pazienti considerati, salito da 18 a 23. Rispetto a un bianco, un nero con HIV ha una probabilità di 7,6 volte maggiore di dover essere ospedalizzato.
Nei paesi africani dove l’omosessualità è criminalizzata, gli MSM sono esposti a un rischio più elevato di contrarre l’HIV
Gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (men who have sex with men, MSM) residenti in paesi dell’Africa sub-Sahariana dove l’omosessualità è severamente punita dalla legge corrono un rischio quasi cinque volte maggiore di contrarre l’infezione da HIV rispetto a chi vive in paesi dove non c’è criminalizzazione: sono le conclusioni di uno studio presentato alla Conferenza. Per chi vive in paesi in cui la criminalizzazione c’è ma non è (relativamente parlando) estrema, la probabilità è di due volte maggiore.
Anche se popolazioni come quella degli MSM costituiscono solo una piccola percentuale della popolazione generale, si tratta di un gruppo ad altissimo rischio di contrarre l’infezione da HIV: all’interno di questo gruppo la prevalenza, nell’Africa sub-sahariana, si aggira secondo le stime tra il 12% e addirittura il 30%. La criminalizzazione dell’omosessualità rappresenta un ostacolo di non poco conto per gli MSM che hanno bisogno di rivolgersi ai servizi per la prevenzione e il trattamento dell’infezione.
Per lo studio presentato alla Conferenza sono stati raccolti dati relativi a MSM residenti in dieci paesi dell’Africa sub-sahariana nel periodo compreso tra il 2011 e il 2018. I partecipanti, un totale di 8113 uomini con età mediana di 23 anni, hanno ricevuto dei questionari socio-comportamentali da compilare e sono stati sottoposti al test per l’HIV. La prevalenza è risultata elevata, con il 19% dei test risultati positivi.
I paesi considerati sono stati suddivisi tra quelli in cui l’omosessualità non è criminalizzata (Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau e Ruanda), quelli in cui è criminalizzata ma, in termini relativi, non in modo estremo (punita con meno di otto anni di reclusione – Camerun, Senegal, Togo ed eSwatini) e quelli in cui è fortemente criminalizzata (punita con oltre dieci anni di reclusione – Gambia e Nigeria).
Nei paesi dove non c’è criminalizzazione dell’omosessualità, solo l’8% degli MSM che hanno partecipato allo studio sono risultati HIV-positivi. La percentuale sale al 20% nei paesi dove è punita con pene meno aspre e s’impenna addirittura al 52% in quelli dove è invece punita con pene molto pesanti.
aidsmapLIVE: speciale AIDS 2020
Il prossimo giovedì 9 luglio NAM trasmetterà uno speciale aidsmapLIVE AIDS 2020. Si uniranno a Susan Cole per commentare le notizie più importanti della Conferenza la dott.ssa Laura Waters, chair della British HIV Association; il dott. Anton Pozniak, presidente dell’International AIDS Society; la prof.ssa Linda-Gail Bekker, vice-direttore del Desmond Tutu HIV Centre; Lucy Wanjiku Njenga, plenary speaker ad AIDS 2020; e Gus Cairns di NAM/aidsmap.
Vi aspettiamo giovedì sulle nostre pagine Facebook e Twitter alle 18:00, ora del Regno Unito (San Francisco 10:00 / Rio de Janeiro 14:00 / Johannesburg e Roma 19:00 / New Delhi 22.30).
Analisi scientifica a cura di Clinical Care Options
Clinical Care Options, in qualità di partner ufficiale della Conferenza Internazionale sull’AIDS 2020 per l’analisi scientifica, offrirà sintesi degli studi presentati all’evento, presentazioni PowerPoint scaricabili e approfondimenti nella sezione ClinicalThought.